IL TIROCINIO

IL TIROCINIO

A scuola era arrivato il momento di fare il tirocinio: ottanta ore divise per venti ore settimanali presso un’azienda. Il mio occhialuto professore del tempo, che aveva una fiatella di cipolla perenne, mi mandò in una ditta che produceva frese elettriche. Ma poteva produrre qualsiasi cosa, dal momento io sarei stato lì per impratichirmi tra note di credito, fatture e cataste di roba d’amministrazione.
Ricordo che prima di iniziare feci un breve colloquio in quella ditta con una vecchiarda serissima che mi diede subito l’impressione mi avrebbe creato solo rotture di coglioni.
Fortuna mi sbagliavo.
Sì perché una volta cominciato, in un freddo lunedì di novembre, la vecchiarda non la vidi più e la cosa si protrasse anche per il resto del mio tirocinio lì dentro. Mi avrebbe seguito infatti un tizio, il responsabile dell’amministrazione, che da subito mi riempì di file da compilare, note spese da controllare e infiniti e infiniti numeri da verificare e incasellare in altri file che dovevo girare tutti i giorni al suddetto responsabile del cazzo. Meno male lo dovevo fare per quattro ore al giorno, la mattina, poi a mezzogiorno e mezza potevo levare le tende.
La svolta, perché è di una svolta che mi appresto a raccontare, ci fu il terzo giorno, mercoledì.
Ero in ufficio seduto sulla mia triste sedia da futuro impiegato quando la vidi arrivare. Me ne avevano già parlato, dal momento era la titolare della baracca. Mi dissero che era una a posto, non arrogante e che ci si poteva avere a che fare senza problemi, mi spiegarono alcuni dipendenti. Non l’avevo vista i primi due giorni perché era in viaggio per lavoro e sarebbe appunto rientrata quel mercoledì.
E infatti la vidi.
Cazzo se la vidi!
Subito non mi fece alcuna particolare impressione. Arrivò e si piazzò nel suo ufficio, che era proprio di fronte la mia postazione. Potevo vedere benissimo quello che succedeva lì dentro dal momento ci divideva solo una parete a vetri. Pensai non fosse una cosa buona. Poteva controllarmi, pensai. Ma poi alla fine constatai che non me ne fregava un gran che. Dovevo solo inanellare quelle maledette ore per il mio diploma e niente di più.
Quando arrivò mi chiamò nel suo ufficio e mi presentai. Ancora, non mi procurò alcun che di reazione. Fu una presentazione molto formale. Ricordo però un odore dentro quell’ufficio, come di miele, che era parecchio gradevole. Poi me ne uscii per piazzarmi davanti al mio pc pieno zeppo di numeri e file excel.
Ma, dio mio, il giorno seguente non passò così tranquillo.
Lei arrivò in azienda a metà mattina, salutò tutti me compreso e si piazzò nel suo ufficio. Da subito capii che c’era qualcosa che non andava, diciamo così, perché notai che quel giorno portava una corta gonna che esaltava due splendide cosce avvolte in calze di nylon. Nulla di volgare o troppo appariscente, difatti nessuno (ma come facevano quegli zombie!!) pareva se ne fosse accorto.
Beh, io no.
E fu peggio quando, dalla mia postazione, potevo vedere benissimo da sotto la scrivania le sue cosce calzate di nero che si accavallavano. Univa quelle gambe fino a farle incontrare, per poi strusciarle un poco e poi una coscia passava sopra l’altra, con un altro sfruscio di nylon che quasi potevo sentire ma era ovvio fosse solo nella mia testa. Erano due pezzi di carne avvolti in sottile nylon nero che mi fecero boccheggiare. Capii che avevo avuto un sussulto e quasi me ne vergognai. Alzai, con timore e, di nuovo, quasi vergogna, lo sguardo verso il suo. Lasciai l’immagine di quelle cosce sensazionali e, per un attimo, incontrai il suo sguardo. Fortuna non stava guardandomi, era ovvio non ne aveva il minimo motivo, però scorsi quello che stava facendo: con le sue sottili labbra colorate da un rossetto rosso fuoco stava, lentamente, mordicchiando la punta della sua biro. A quel punto non potei fare a meno di continuare a fissarla, al diavolo se mi avesse sgamato! Mordicchiava la biro e, con un gesto rapido, si mise poi a leccarne appena appena la punta. La sua lingua ne pennellò il cappuccio per poi finire in un altro piccolo morso.
Mi ritrovai con l’uccello che mi spingeva nei pantaloni.
E per tutte quelle quattro ore, mentre dovevo sbrigare inutili cose che mi venivano date, ogni tanto scorgevo quelle cosce vellutate e c’impazzivo.
Il giorno dopo, venerdì, stessa storia.
Ma … peggio.
Peggio perché durante la sua nuova scosciata, vidi portava le autoreggenti. E poi, fece un’altra cosa che mi costò la salute mentale. Prese a dondolare la sua scarpa di vernice bianca col piede. Un piede velato di nylon che danzava sotto la sua scrivania. Perse poi la scarpa e la recuperò, chinandosi e scosciando ancora di più.
Non ce la facevo ancora per poco a resistere.
Non volevo, era folle, era da pazzo.
Ma, cristo, quello ero: pazzo!
Quel giorno ero solo. Accanto e dietro di me non c’era nessuno, avevano preso tutti ferie. E così continuai a lumare quelle cosce, e quel piede che danzava e, di nuovo, la biro, porca puttana, quella biro che veniva succhiata, leccata, e m’immaginai parte del suo rossetto che ci rimaneva attaccato sopra.
E, lentamente, mi tirai giù la lampo.
Poi, improvviso e senza più remore, me lo tirai fuori.
Dalla sua postazione non poteva vedere sotto la mia scrivania (come invece dio mio potevo fare io) e così cominciai a farmi una sega.
Quando lo tirai fuori era già duro come un martello e dopo un niente già una prima goccia mi uscì dalla cappella e percorse tutto il lato destro del mio cazzo, fino a raggiungere la mia mano che ora si era messa ad accelerare. Di nuovo una scosciata, lenta, e il lembo dell’autoreggente che potevo vedere meglio. E allora io giù più forte a segarmi madonna santa!
Sborrai mentre le fissavo il piede nudo immaginandomi di schizzarlo tutto. Sentii sotto di me che erano infatti partiti tre begli schizzi, di cui il primo si era stampato sotto la mia scrivania. Presi velocemente un fazzoletto di carta che avevo dietro, pulii un poco la sborrata e mi asciugai la cappella. Stetti però lì con la cappella gonfia e di nuovo la fissavo. Non riuscivo a rimettermelo via, anzi me lo sentivo nuovamente che s’induriva!
Nulla: avevo il cazzo ancora in tiro.
Immaginai a quel punto mi chiamasse nel suo ufficio. Non era contenta del mio lavoro e mi obbligò a spogliarmi. Mi fece poi stendere per terra e mi salì sopra. Da lì potevo vedere le sue mutandine nere che però immediate se la calò. Poi, mentre io ero sempre nudo sul pavimento del suo ufficio, si sedette sopra la mia faccia, soffocandomi con la sua fica che cominciai a leccare furiosamente, mentre lei era china su di me, a piedi nudi e in calze nere.
Sborrai di nuovo.
Ora avevo il fiatone e cercai di controllarmi.
Stavolta ce la feci a rimettermelo nei jeans anche se era ancora barzotto.
Riuscii a finire quella giornata non so come e tornai subito a casa.
Il pensiero però di quelle cosce, di quella figa da leccare al sapore di miele mentre mi diceva cosa non andava nel mio lavoro, mentre diceva che ero una frana e non capivo nulla ed ero cristo santo per questo costretto a leccarle la fica beh, tutto questo mi stava distruggendo!
Per le settimane seguenti, fino alla fine del mio tirocinio, quando la vedevo in ufficio (e aveva sempre, non un giorno escluso, le cosce in bella vista), sognavo di scoparla in tutti i modi.
Una schizzata la tirai, stavolta nel bagno, avendo davanti l’immagine di lei che mi succhiava l’uccello stringendomi un poco le palle. E le sborrai in mezzo alla faccia, senza pietà che quasi mi venne da piangere!
Fu triste e difficile accettare di lasciare quel posto.
Quando arrivò l’ultimo giorno però era come se qualcosa si fosse chiuso. Infatti non provai nulla, non mi ritrovai (prima volta!) il cazzo in tiro dentro quell’ufficio di fronte le sue cosce.
Alla fine lei mi ringraziò per il lavoro svolto, firmò un foglio e ricordo ringraziai anche io quella femmina da esaurimento nervoso!
Sapete una cosa? Ancora oggi, quando sento un certo sapore o un odore che ricordi quel miele che percepii nel suo ufficio, mi viene subito in mente quella fica da leccare, splendida visione idealizzata di un tirocinio mica male!

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