Lucy – Lockdown blues (1)

Lucy – Lockdown blues (1)

L’antefatto… ero poco più di un ragazzino, uno di quelli a cui il peso crea una sorta di insicurezza nel relazionarsi con gli altri, e tutte le mattine arrivavo per primo nel grande cortile di quella scuola, parcheggiato temporaneamente lì da mia mamma. In quegli anni non si parlava ancora di “prescuola” e così aspettavo, girovagando nel cortile, l’arrivo dei miei compagni. Fino a che si accorse di me Matteo: un ragazzino dell’ultimo anno, un soggetto difficile, quello che oggi chiameremmo un “bullo”.

Per farla breve, da quel momento le mie mattine passarono in maniera diversa: nascosti in un piccolo ripostiglio semi abbandonato, Matteo si faceva baciare e leccare da me il suo cazzetto adolescenziale e spesso mi abbassava i pantaloni per appoggiarmelo nel solco tra le natiche e strofinarcelo avanti e indietro, imitando ciò che vedeva nelle riviste “dei grandi”.

Se le prime volte avevo abbozzato qualche opposizione a questi atti di bullismo sessuale, man mano non dico che avevo iniziato ad apprezzarli, ma comunque li accettavo.

Crescendo, poi, scoprii che quelle molestie mattutine avevano, per così dire, gettato un seme nel mio subconscio, e leggendo le prime riviste erotiche recuperate chissà dove mi accorgevo che, sempre più spesso, mi eccitavo immaginando le sensazioni non tanto del protagonista maschile ma della ragazza che di volta in volta succhiava il cazzo del porno modello di turno.

Da lì a voler provare, quand’ero solo in casa, ad indossare un collant che mia madre aveva gettato perché smagliato, e a masturbarmi analmente con una candela, il passo fu breve.

Quelle sedute segrete di sesso proibito mi causavano degli orgasmi dirompenti ma mi lasciavano sempre in uno stato di confusione: ero gay? ma allora perché mi piacevano le ragazze? onestamente mi sarei “fatto” tutte le mie compagne, ma chiuso in casa godevo senza nemmeno toccarmi accarezzandomi le cosce inguainate nel nylon ed affondandomi la candela nel retto dopo averla succhiata come un piccolo cazzo.

Da giorni, ormai, con i miei compagni di università seguivamo le notizie legate al diffondersi del virus in Oriente senza una vera apprensione, com’è abitudine dei ventenni che si credono sempre invulnerabili e immortali, intoccabili da tutti i mali e le miserie del mondo; anche la scoperta del famoso “Paziente Uno” in quel di Codogno ci aveva sfiorato appena, anche se ci metteva davanti all’inequivocabile fatto che il virus era arrivato in Italia, a pochi chilometri da noi.

Continuavamo a prepararci per i prossimi esami tra una birra, una partita alla Playstation e un’uscita in cerca di avventure in quella piccola cittadina dove dividevamo l’alloggio di proprietà della famiglia di Marco. Come aveva fatto fino all’anno prima la sorella, ormai laureata, metteva in condivisione l’alloggio e le relative spese con tre compagni avendo così un punto d’appoggio vicino alla città dove eravamo andati a studiare, e da cui tornavamo a casa ogni weekend.

Io e Marco dalla stessa città, Gianni e Paolo da due regioni del sud, eravamo appena rientrati alla “Tana” quando la novità ci colpì come un pugno improvviso ed imprevisto alla bocca dello stomaco.

Lockdown.

Questa parola sconosciuta con cui avremmo ben presto preso confidenza cambiava in un momento le nostre vite. Soprattutto la mia, come vedremo.

Lezioni sospese, macchine della Polizia ad impedire l’accesso e l’uscita dal paese, negozi chiusi e ordine per tutti di restare tassativamente a casa, oltre che l’impossibilità di tornare alle nostre “vere” case.

Per i primi giorni la vita scorreva con un ciclo ripetitivo: telefonate dei genitori per sapere come stavamo e se avevamo da mangiare, un po’ di studio, un film in TV e una partita a qualche videogioco. Poi a dormire, e il mattino dopo si ricominciava daccapo.

Dopo la prima settimana, però, l’abitudine e la ripetizione si trasformarono, inevitabilmente, in noia; così una sera Gianni, stufo delle solite repliche dei film in tv, accese il proprio portatile e si mise a vedere un film porno ricuperato in rete.

Le nostre lamentele ben presto lo convinsero a tornare nel salotto, la nostra “sala comune” e condividere con noi lo schermo mettendo il computer a terra, davanti ai due divanetti Ikea dove prendemmo posto tutti e quattro, due su uno e due sull’altro.

Le immagini di una milf americana alle prese con due surfisti palestrati che le riempivano tutti i buchi in ogni combinazione possibile avevano il logico e prevedibile effetto sui nostri ormoni di ventenni, e così ben presto iniziammo a massaggiare le nostre erezioni attraverso la stoffa delle tute, fino a che Gianni, il più sfrontato, si tirò l’arnese di fuori iniziando ad accarezzarselo.

Ovviamente io, Marco e Paolo non volevamo essere da meno, anche per dimostrare a Gianni che, in quanto a centimetri, non avevamo di certo niente da invidiargli, in una di quelle gare di virilità tra piccoli “maschi in alfa in erba”.

Non ricordo come successe, fatto sta che ad un certo punto passammo dalla masturbazione personale a quella reciproca, godendo di quella sega che, una volta tanto, non veniva fatta dalla nostra mano ma da una mano estranea. Per me era la prima volta, dopo quell’episodio di molti anni fa, che mi trovavo ad avere a che fare con un cazzo in carne ed ossa che non fosse il mio, e lo sentivo crescere e gonfiarsi nella mia mano, ne sentivo pulsare ogni singola vena.

“Ti piace così tanto? Vuoi dargli un bacino?”

La voce di Gianni, il proprietario del cazzo che stavo masturbando, mi richiamò improvvisamente alla realtà, mentre tutti scoppiavano a ridere.

Ad un tratto i due attori eiacularono uno sul viso e uno nella bocca della protagonista, e dopo un attimo sentii che anche Gianni raggiungeva il piacere schizzando il suo sperma.

Quel calore bagnato sulla mia mano, che peraltro continuava a stringere e a masturbare il suo cazzo, fu la spinta decisiva che mi fece godere anche senza più l’aiuto manuale del mio compagno, che nel frattempo aveva smesso di rendermi il piacere, intuendo che per me fosse già abbastanza appagante il contatto col suo membro.

Passato il momento, i miei compagni si andarono a sciacquarsi e a ricomporsi, mentre io mi preoccupavo di ripulire il pavimento dai miei stessi schizzi.

Con la spugnetta raccoglievo le gocce biancastre dalle piastrelle, quando quel pensiero perverso tornò a fare capolino nella mia mente… raccolsi un grosso grumo di sperma con le dita, quelle stesse dita ancora sporche del seme degli altri due, e lo portai alla lingua.

Quel sapore salato mi provocò una scossa lungo tutta la spina dorsale, e rimasi lì, in ginocchio, a succhiarmi le dita come fossero dei minuscoli cazzi per ripulirli dallo sperma, quando il rumore dei passi di Gianni mi richiamò alla realtà.

Terminai le mie pulizie e andai a lavarmi in bagno, sperando che non mi avesse visto…

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