Second Waltz n°2

Second Waltz n°2

“egocentrica, come tutti” l’anulare
“vergine” aprì tutte e cinque le dita.
Giuro mi si mozzò il fiato in gola. Chiunque avrebbe risposto “ma come si permette??” io invece rimasi paralizzata, arrossata, e non dall’arrabbiatura, impotente.
“Ci ho preso’?” disse inarcando le sopracciglia.
Io non dissi nulla.
Nemmeno lei, ma inarcò ancora di più le sopracciglia fissandomi negli occhi quel suo sguardo, un modo per dire nuovamente “ci ho preso?”
Feci un minimo, impercettibile, segno di assenso.
“E proprio come a me, non ti piacciono gli uomini”
Mi inchiodò con lo sguardo al muro. Ora non ero paralizzata. Ero un blocco di ghiaccio in ogni cellula. Le punta delle dita mi formicolavano impazzite dentro la carne.
“Ci ho preso”?
Non dissi niente. Non feci nessun cenno. Niente di niente. La guardavo solo. Congelata.
“Non ho bisogno che mi rispondi”.
Passarono cinque lunghissimi minuti di silenzio tra di noi. O forse erano due. O forse pochi secondi. A me parve un’eternità, soprattutto adesso quando ci ripenso.
Poi lei si alzò dalla poltrona. Mi diede un ultimo sguardo e se ne andò, senza dire nulla.
Io rimasì lì paralizzata, senza sapere cosa fare. La casa era ora avvolta dal più assoluto silenzio. Tutto mi sembrava ovattato, come se stessi dentro una campana di vetro.
Volevo andarmeno e non potevo. Una forza mi tratteneva lì. Eppure la porta era lì, a due metri da me. Gira la maniglia, saluta e torna a casa.
Ma ero immobile. Aspettavo che lei tornasse, o che dicesse qualcosa. Sapevo, non so con quale potere della mente, amplificato da quel silenzio, dov’era andata senza averla vista andare lì. Lo sapevo senza saperlo.
Rimasi ancora due minuti immobile, col violino abbassato. Poi lo appoggiai sul tavolo e andai a vedere.
“Ce ne hai messo di tempo”
La trovai davanti alla sua camera da letto. Con addosso solo una vestaglia di seta color panna.
Il respiro mi arrivò in gola e feci due passi indetro e non dissi niente, non ne avevo la forza, ne di andarmene, ne di fare altro.
Ero letteralmente, completamente, paralizzata. Il mio respiro perdeva due giri ad ogni inspirazione.
Ancora quel suo sguardo, dalla caviglia sù, piano piano, fino alla spalla, e poi agli occhi. Una piuma invisibile mi accarezzava il corpo e mi congelava allo stesso tempo.
“Lo so come ti senti” mi disse. “Anche a me accadde la stessa cosa. Tanto tempo fa ormai. Non riesci a muoverti vero? Lo so. Ma non ti costringerò, se è questo che ti preoccupa, come lei non lo fece con me”
Il mio respiro si fece più forte.
“Quella è la porta” disse indicando l’uscita, “e anche questa lo è” dissei indicando quella sulla quale era appoggiata.
“Sono le 14, Carlo è partito un’ora fa per Milano e, facendo due conti, non tornerà prima di questa sera tardi”.
Non sapevo cosa dire, cosa fare, nulla. Una statua, credetemi. Una statua ghiacciata.
“Vuoi chiamare i tuoi che tardi?”
Quella domanda mi scioccò a tal punto che spalancai lievemente la bocca. Fare…tardi. Chiamare i miei per fare tardi per…
Feci un lieve cenno di no con la testa. I ricci, che avevo all’epoca, mi crearono un lieve solletichio alle orecchie.
Lei ancora mi squadrò, dalle caviglie alla spalla e questa volta il brivido che mi provocò mi sconquassò in ogni poro della pelle.
Restammo a guardarci per un minuto. Forse per pochi secondi. Forse per dieci miliardi di anni. Non c’era più tempo, nè spazio.
“E’ stato quasi quarant’anni, era giugno” disse. “E restavo lì, proprio come fai tu.
Non mi accorsi nemmeno che mi aveva preso per mano. Mi abbandonai. Entrammo.
“So cosa provi”. ripetè. “E so anche che vorrei tornare a quel momento ogni giorno”. La sua voce era un sussurro adesso, aria calda che mi soffiava nelle orecchie. Mi stava accarezzando la mano, io tremavo, ma davvero forte. E non solo di paura.
Poi accade tutto come in un massaggio al quale ti sei abbandonata da una giornata lavorativa, non mi accorsi che contemporaneamente mentre mi baciava, e io non opposi alcuna resistenza, e dava un morsetto al labbro inferiore, e io ricambiai con la paura di farle male, non mi accorsi che mentre faceva questo la sua mano me la stava sfiorando, massaggiando…e ancora lievemente sfiorando, e poi ancora massaggiando e io venni, esplosì, subito, con il corpo fuori controllo dagli spasmi, la bocca aperta prima dallo shock e poi dal piacere e poi dallo shock, dal piacere e dalla sorpresa e dall’addesso oddio cosa sta accandendo e lei continuava e continuava e io ero tutta un fascio di nervi e lei che non diceva niente e io che “sì…”.. “sì…” non so nemmeno come mi uscirono dalla bocca quelle poche semplici, vitali, magnifiche parole.
Scese con la testa, mi guardò solo un attimo, e sorrise e scostò le mutandine o forse le tolse non riuscì bene a capire e oddio forse è quello il vero momento, forse è proprio quello, quando sentìì la sua lingua…prima fuori…attorno…poi dentro e colavo, colavo lo sentivo e mi vergognavo ma poi venni ancora una volta, più violentemente della prima e poi una terza e ancora…non capivo più niente quando tenevo la sua testa clì e le mie mani si perdevano nei suoi capelli e persi il controllo completo di me.
Mi vestii subito, rimisi la mia maglietta di flanella e le mie mutandine e non andai nemmeno in bagno e uscì e presi il mio violino e non dissi nulla. Nulla, nulla, nulla e nulla e mai più nulla a nessuno fino a oggi.
Oggi una lezione.
Sapete?
Insegno il violino anch’io…

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