Io e mia sorella: capitolo 3

Io e mia sorella: capitolo 3

Il giorno dopo ci fece visita un ospite poco gradito: l’Imbarazzo. Feci finta di aver dimenticato quanto successo la sera prima ed evitai di rivolger parola a mia sorella che, sedutasi al tavolo per fare colazione, continuava a fissare silenziosa il cellulare. Blande giustificazioni prive di senso s’accavallavano nella mia mente, si sfidavano a chi prima riuscisse ad arrivare al traguardo – la mia voce – ma nessuna di loro sembrava abbastanza desiderosa di uscire allo scoperto: troppo gelido e inospitale il clima lì attorno, una grigia tundra fatta di voglie inespresse e marcescenti e desideri atrofizzati. Mi sedetti pregustando la colazione, quando Nami ruppe la staticità del silenzio e mi domandò i programmi della giornata, cosa avessi intenzione di fare e se avessi voluto sentire qualcuno degli amici per un pranzo in giro per la città. Cordiali frasi di circostanza volarono tra noi per un po’, rapide come falchi in picchiata dopo aver adocchiato la preda, fino a quando, incapace di trattenersi oltre, me lo domandò. «Ti sei divertita stanotte?» L’immediatezza della domanda, precisa quanto una freccia scagliata dal più abile degli arcieri, mi lasciò silenziosa e inebetita per qualche secondo. Iniziai a scusarmi ma le parole suonarono poco persuasive: come potevo pensare di convincerla della casualità del mio gesto, quando anche io non ne ero convinta? Discutemmo per un po’, ci confrontammo, continuai a chiederle scusa. Ero sicura stessi dormendo (bugia), l’ho fatto solo per stancarmi e potermi addormentare più facilmente (altra bugia), se solo avessi capito che eri sveglia non avrei di certo continuato (divenni la Regina delle menzogne). «Sara, non è la prima volta che ti sento, ma in tutti questi anni non sei mai stata così… sfrontata e palese.» La ragione era dalla sua. Avevamo condiviso la stessa camera nell’appartamento dei nostri genitori e la condividevamo anche adesso che avevamo conquistato la nostra autonomia. Ero consapevole del fatto che di tanto in tanto lei m’avesse sentita – impossibile che non fosse mai capitato – ma mai ero stata così spudorata nei suoi confronti. Fino ad allora ogni rumore, fiato stonato, respiro irregolare da parte sua avevano interrotto all’istante qualsiasi effusione erotica scambiata tra me e le mie dita. Riflettei se farle presente che lei stessa non aveva fatto nulla per interrompere il corso degli eventi la sera prima, che mi aveva persino chiesto se avessi raggiunto l’orgasmo, ma queste domande mi facevano sentire ancora più in colpa. Continuai a scusarmi colorandomi di un’intensa sfumatura di rosso e, quasi fossi una scolaretta discola messa in castigo dalla maestra, le dissi che mi dispiaceva averla fatta arrabbiare. Si alzò senza proferir parola, alquanto turbata all’apparenza, poggiò la tazza nel lavello e decise di farsi una doccia. Temetti il peggio dal suo atteggiamento silenzioso, fui presa in ostaggio dai sensi di colpa e le visioni più catastrofiche iniziarono ad accumularsi davanti ai miei occhi. Finita la doccia, si preparò per uscire dicendomi che si era accordata per una mattinata di shopping con un paio di amiche e, quasi balbettando sulla soglia, mi fece il più bel regalo che potessi desiderare. «Comunque… non sono arrabbiata per stanotte…» Si chiuse la porta alle spalle quasi fuggendo via dalle parole che aveva lasciato a levitare a mezz’aria, dal prezzo che ebbe dovuto pagare per far sì che quella confessione vedesse la luce e, soprattutto, dall’ipotetico messaggio nascosto in quella pausa di sospensione nella sua voce, ancora fluttuante nelle mie orecchie. Rimasi basita e fantasticai su quella frase per il resto della mattinata. *​ L’indomani una coppia di amici ci invitò ad andare a un concerto gratuito all’aperto; quella sera si esibiva una cover band di un famoso gruppo finlandese. Birra e musica metal, pensammo, quale accoppiata migliore per passare una serata? Eccitate per l’evento sin dal mattino e dimentiche della discussione del giorno prima, quando il tramonto si apprestò a dorare il cielo iniziammo a prepararci per l’aperitivo che avrebbe preceduto l’evento. Fui la prima a fare la doccia, mi truccai e scelsi dal mio armadio (Non ho niente da mettermi fu la frase più ricorrente in quei dieci minuti) un completo che potesse ben adattarsi allo spirito del concerto. Nami terminò la doccia poco dopo. Pensai che fosse meglio concederle un po’ di privacy – non era il caso di allontanarci dall’occhio del ciclone in cui pacificamente ci trovavamo – e mi sedetti sul divano, lasciandola da sola in camera ad asciugarsi e vestirsi. La lancetta dei minuti marciò per un po’, poi lei aprì la porta e un leggero odore di vaniglia si riversò nella sala. «Come sto?» Indossava un top nero che le lasciava le spalle, le braccia e l’ombelico scoperti. Una minigonna plissettata le metteva in risalto le gambe lunghe e snelle; sul fianco interno di una di esse si stagliava il tatuaggio fatto l’anno prima: una margherita dal lungo stelo nasceva dal collo del piede, accanto al malleolo, per terminare fiorente all’incirca una decina di centimetri più in alto. Un paio di ballerine, infine, completavano il suo outfit. Si era raccolta i capelli in una piccola coda, lasciando qualche ciuffo ribelle libero di cadere docilmente sulle spalle dopo averle prima accarezzato le guance. Ammaestrai il mio desiderio e mi sforzai di non guardarla troppo a lungo nei suoi nipponici occhi a mandorla, per non rendere palesi dei pensieri chiaramente peccaminosi. Roteò su se stessa, alternando nei miei occhi il nero dell’abbigliamento al chiarore della sua pelle lattea, mi guardò e ripeté la domanda in un mezzo sorriso. «Quindi?» (Se Apelle fosse vivo, ti avrebbe sicuramente scelta quale modella dei suoi dipinti). (Afrodite aveva forse le tue fattezze?) Mi avvicinai silenziosamente fingendo uno sguardo critico; nella mia mente iniziai a dosare bene i complimenti in modo da crearne uno che non lasciasse trapelare quanto la desiderassi e mi sovvennero quelle parole ingiallite dai secoli. “Quale dolce mela che su alto ramo rosseggia, alta sul più alto; la dimenticarono i coglitori; no, non fu dimenticata: invano tentarono raggiungerla.” * ​ Decisi per un innocuo “Stai benissimo, mio piccolo panda”; lei ricambiò il mio sorriso. Le poggiai una mano sul viso, le spostai una ciocca di capelli dalla guancia e con il pollice le sfumai un po’ l’ombretto nero sugli occhi. Quel contatto, il palmo della mia mano, rovente contro la sua guancia, m’aprì le porte della Vita. Nami, solitamente pudica quasi quanto una sposa vergine la prima notte di nozze, resistette all’impulso di guardarsi le scarpe e sostenne ferma il mio sguardo. Restammo così io e lei, pochissimi secondi e un’intera vita, a scambiarci silenziosamente passione e desiderio a distanza di un soffio l’una dall’altra. Provai intense vibrazioni nel basso ventre mentre forti scariche elettriche sembravano fluire attraverso i nostri occhi. Il suo sorriso mutò quando unì la mano alla mia; poggiò le dita fredde sulle mie nocche e m’accese con una scarica d’adrenalina che mi pervase da capo a piè, paralizzandomi di colpo. Non seppi spiegarmi ciò che feci dopo ma, memore del superbo Icaro e della sua triste fine, intimorita dalla potenzialità di ciò che iniziava a prender forma tra noi, fumo incorporeo che s’andava solidificando, mi allontanai dal Sole per evitare di bruciarmi e cadere rovinosamente nel fango. Chiamai all’appello tutte le mie forze e con un ultimo sorriso mi staccai dolorosamente da lei. Prima di voltarmi, però, riuscii a cogliere l’accenno di un intenso sguardo sfiorarmi le spalle. — continua * “La dolce mela”, Saffo.

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