La direttrice del carcere I

La direttrice del carcere I

Sono molti anni ormai che ricopro la carica di direttrice del carcere. Non si ha idea di quanto può essere complesso gestire un sistema del genere. Bisogna controllare tutto, dalle derrate alimentari, alle ristrutturazioni, al personale. Tenendo sempre presente che ogni attività si deve svolgere in condizioni di massima sicurezza.
Ogni giorno siedo alla mia scrivania e scrivo lettere, faccio telefonate, assisto a riunioni. La mia mente razionale è continuamente applicata per risolvere gli svariati problemi.
Ma quello che si muove nel mio intimo no. Qui le leggi dello stato non esistono.
E’ tutta una vita che sono attratta dalle donne. Tra i più di settecento detenuti, le femmine sono solo quarantatre. Le conosco una per una. Non posso fare a meno di immaginare, di alcune di esse, la loro vita serrata nelle celle, vagante nel cortile nelle ore d’aria, nelle docce, nelle infermerie. Vite le cui traiettorie hanno incontrato il carcere per spaccio di droga, furto, complicità, omicidio. In questi anni, molte ne son passate tra queste mura. La maggior parte di queste delinquenti sono giovani, fresche. Non ho mai potuto fare a meno di immaginare, per ciascuna, quale potesse essere il corso delle sue emozioni, dei suoi ricordi, dei suoi sogni, l’impeto dei suoi desideri frustrati. Posso indovinare i loro corpi sotto le tute che la maggior parte indossa. Immagino l’aureola rosata attorno al capezzolo di una biondina, la lieve resistenza del ricciolo nero della capigliatura di una zingara, l’afrore della vagina di una algerina. Quanto ho desiderato, e ancora desidero, accarezzare la coscia di quella alta ragazzona dai capelli lisci castani pettinati a coda di cavallo. Sola nel mio letto, di notte, traggo dalla mia fessura strazianti orgasmi mentre mormoro il nome della preferita di quel momento.
Immagino il discreto profumo, per quel che può permettere la modesta igiene di una sola doccia alla settimana, di una ventenne albanese in attesa di estradizione. Sono, per l’immaginazione esasperata dal desiderio, tra le calde lenzuola della loro brande, tra i pacati respiri della cella notturna. Ho cercato di indovinare, così, guardandole dall’alto, quale di esse avrebbe accettato di essere mia. Quelle piccole figure camminano nel cortile o si adunano in gruppetti per chiacchierare. Attraverso il vetro, accanto alle guardie che ignorano quali siano i miei pensieri, mi faccio compagna di ognuna di loro. Tutte le ho conosciute nel colloquio preliminare prima dell’incarcerazione. Erano tutte silenziose, umiliate, rassegnate a rispondere alle domande che io potevo porre. Nessuna di quelle più giovani poteva supporre di quanto fosse splendida ai miei occhi, di quanto avessi desiderato sentire il sapore delle loro labbra, la morbidezza dei loro seni, la curva dei fianchi, la delizia nascosta in mezzo alle cosce. Le congedo con un sorriso augurando una detenzione all’insegna della buona condotta. Ed eccole consegnate al rigore di quelle celle.
Non che intenda o abbia mai inteso approfittare di loro. Disonestamente, forse, avrei le possibilità di farlo, promettendo permessi, privilegi e regali alle loro famiglie. Almeno finché la legge non busserebbe alla mia porta per cacciarmi in mezzo a loro. Ma invece mi dedico ad amministrare con correttezza i turni delle guardie, la frequenza dei colloqui.
Tra poco verrà nel mio ufficio una prigioniera al termine della condanna a sei anni. La sua imputazione è quanto mai singolare per una donna: rapina a mano armata. Questa ragazza ha trentasei anni, il viso attraente e serio di una teppista che sorride raramente, non per aridità interiore, ma per la sua somiglianza a un felino, pronto al pericolo o ad una carezza. Per questi anni ha accompagnato spesso i miei sogni. So che ha avuto meno colloqui di quelli che avrebbe tecnicamente potuto avere. Del fratello qualche volta prima che fosse incarcerato, della madre, mai del padre. La indovino sola, schiva. Anche il suo corpo è come quello di un gatto, morbido e compatto, al bisogno scattante. Il seno è scarso, come in ogni complessione in cui sia predominante il tono muscolare. Ricordo che quando fu introdotta, all’inizio della sua condanna, nel mio ufficio, subito ne fui colpita, anche se finsi faticosamente l’indifferenza dovuta al mio ruolo. Il suo sguardo si era posato su di me inespressivo. “Vieni avanti, siediti” l’avevo invitata. Lei si distaccò dalle due guardie e venne di fronte a me. Si accomodò sulla disadorna seggiolina senza braccioli, il volto serio, rassegnato. Aveva risposto con laconica semplicità alle mie domande. Era stata condannata per la rapina e per aver ferito, con un colpo di rivoltella, la sua vittima.
Alla vista delle mani che teneva in grembo, forti per una donna e ben proporzionate al resto delle braccia, non seppi reprimere il pensiero di come sarebbero state sul mio corpo e tra le mie gambe. Scorsi per finta davanti a lei le pagine del suo dossier che avevo già visionato.
“Così sei stata condannata a sei anni. Inutile che ti dica che se manterrai una buona condotta, ne farai di meno all’interno del carcere. Da quanto vedo sai sparare con la pistola. Chi te lo ha insegnato?”
“Mio fratello maggiore”
“Attualmente vedo che anche lui è carcerato. Hai rapinato assieme a lui?”
“No, avevo una complice”
“Sì è esatto. Anche lei condannata vedo, in un altro carcere. Puoi non rispondere, ma vorrei sapere cosa ti ha portata, anzi cosa vi ha portate, a fare questo. Lo chiedo a tutte le nostre detenute. Come ripeto, puoi non rispondere. Non è una domanda ufficiale.”
Lei mi aveva guardato leggermente stupita. Non si aspettava una tale domanda.
“Credo che sia stata la rabbia” rispose.
“La rabbia verso cosa o chi?”
“Verso tutti”
La risposta denotava una certa consapevolezza, non tutte sanno rispondere così per i loro reati.
“E’ per questo che hai sparato alla tua vittima?”
“No, è stato perché quell’uomo ha tentato di reagire dando uno spintone alla mia amica. Non ci ho visto più”
“Capisco. Leggo infatti che hai sparato colpendolo ad una gamba.”
“Sì, poi siamo scappate”
“E siete state denunciate dalla vittima che poi vi ha riconosciuto tra il gruppo di donne che sono state fermate. Non ti sei resa conto che così facendo avresti aggravato la tua pena? Che senso aveva sparare?”
“Temevo per la mia compagna.”
“Si è fatta male?”
“No, ma volevo proteggerla.”
“Le vuoi molto bene?”
“Sì molto.”
In questi anni, è orribile ma vero, il pensarla in fondo a una cella ha acceso laidamente la mia fantasia. Quante volte mi sono masturbata pensandola abbandonata di notte alla sua branda, o mentre assolveva ai propri bisogni nella minuscola lattrina della cella, o quando si lavava i denti al mattino e si spruzzava poca acqua sul viso e tra le ascelle dopo essersi tolta la maglietta e il reggiseno. E quante volte, durante le occupazioni del giorno che poi ho sempre eseguito con il massimo scrupolo, il mio sguardo si era portato all’infinito al pensiero di lei.
L’avrei voluta, così dura e indifferente, appoggiata sulla mia spalla per poterle lenire con le carezze quelle ferite che l’avevano resa così. L’avrei baciata sul collo appena sotto l’orecchio.
Torno al presente.
Ecco la porta si apre.
Fine prima puntata

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