Sverginità

Sverginità

Pomeriggio di un maggio caldissimo. Percorro la strada infuocata sotto un sole che picchia come un fabbro fatto di LSD, attraversando con la mia Vespa 50 special del ’75 – regalo di un mio zio appassionato e fine restauratore di moto d’epoca, che l’ha riportata in vita e agli antichi fasti dopo averla recuperata in un paio di scatoloni ammuffiti presso uno sfasciacarrozze – le onde di calore che si levano dall’asfalto e che mi fanno vibrare la vista. Dopo una giornata del cazzo a scuola, passata a sudare come un penitente e a stramaledirmi per non aver fatto chiodo, e una sclerata con quella stronza di Marta, che dopo sei mesi che stiamo insieme ancora non va oltre l’ambata sega-ditalino – consumata anche quest’ultima nella cantina del suo palazzo prima che, stizzita per le mie insistenze sempre più pressanti, imboccasse di fretta e furia le scale, lasciandomi come un coglione col cazzo ancora duro e le mutande al ginocchio – queste altre due ore di lezione di matematica non sono proprio una botta di vita, ma mia madre non digerirebbe la sospensione del giudizio a settembre proprio nella materia in cui eccelleva ai tempi del liceo, e che avrebbe tanto voluto approfondire all’università, sognando un futuro da ricercatrice e da docente, se mio nonno non le avesse imposto la più pragmatica facoltà di giurisprudenza – con occhio lungimirante, col senno del poi, considerati i successi della figlia nel campo forense, nello specifico nel settore matrimonialista, laddove le parcelle monetizzano le lacrime da coccodrillo di riccastri (indubbiamente le vittime predilette di mamma) per lo più beccati con l’uccello nel nido sbagliato. E così mi toccano sei ore di ripetizione a settimana con ‘sta prof che me lo tira come un missile in rampa di lancio con tutti i propulsori a pieno regime – ma c’è da dire che qualsiasi esemplare del genere femminile in questo periodo mi arrapa oltre misura -, e già mi viene l’emicrania da coglioni gonfi, accidenti. Mi sa che come arrivo mi chiudo in bagno e me ne sparo una subito a freddo, così mi tolgo il pensiero. Perso in queste elucubrazioni, sudato e sbuffante come una locomotiva, parcheggio la Vespa ai lati del vialetto, così che non rompa le palle a nessuno, saluto con un cenno della mano Mario, il portiere, che ricambia con un mugugno da dietro la pagina sportiva de Il Mattino, e prendo l’ascensore. Da quando l’ho beccato a farsi faccia a muro la donna delle pulizie nel sottoscala, coi calzoni alle caviglie e la presa salda sui larghi fianchi della rumena, un filo di bava che gli pendeva dalla ghigna e il ventre peloso che sbatteva contro le muliebri bianchicce chiappone, è diventato meno stronzo, il vecchiardo, e oltre a mollarmi 50 euro (taccagno!) per la discrezione, non scassa più i maroni su dove e come parcheggio la Vespa né mi fa aspettare un quarto d’ora impalato al portone perché è stato appena passato lo straccio nell’atrio. Sa di avere un mestiere in via di estinzione, l’amico, e vuol tenerselo giustamente stretto. Che poi, 50 carte a parte, mi sarei fatto ugualmente i cazzi miei. So stare al mondo io, diavolo. Tuttimodi, detto tra parentesi, una foto col cellulare gliel’ho pure scattata, ma come materiale da masturbo, più che altro, mica per ricattare. Pur volendo, in questo genere di cose, come in quasi tutte, finisce per pagare chi è più debole e meno garantito – lo dice sempre il prof di Filosofia -, e la povera donna già si deve sorbire quella discarica umana per arrotondare una paga da fame, unica entrata probabilmente di una nidiata di bambocci biondi con gli occhi azzurri e di un marito sulla via dell’alcolismo. Evviva il luogo comune! Ad ogni modo, toglierle quel poco sarebbe da infami. Ed io non lo sono, un infame. * Sonia viene ad aprirmi in shorts celesti e t-shirt I (cuoricino) Istanbul. Ecco, cominciamo bene! Il cazzo dà un sussulto e uno scossone bello forte e già si erge come un totem nei bermuda. Per le prossime ore sarà un supplizio. La prof ha legato la chioma scura e riccioluta sopra la nuca, scoprendo un collo sottile in contrasto con la pienezza delle curve. Formosetta, è la definizione che passa, in virtù di cosce un po’ tozze ma tornitissime, un seno generoso, che vedo ballare dentro la maglietta ad ogni movimento, e, soprattutto, un culo largo, sodo, tondo, che rievoca quello delle puledre da monta. La seguo come un sanbernardo per il corridoio, quindi in cucina, dove mi chiede se voglio una bibita, che accetto molto volentieri. Sulla 40ina, Sonia ha ancora un viso da adolescente, come capita a parecchie donne in carne anche non più fanciulle, un sorriso luminoso e due occhi neri e vivaci che sembra ti facciano la radiografia, da come sono penetranti. Ci sediamo al tavolo del soggiorno che, per quanto sia in penombra, è affidato a quest’ora alle attenzioni ben poco amorevoli della controra e quasi alcun sollievo apporta il ventilatore a due passi da noi, più simile ad un grosso fono, visto l’aria calda che smuove. Nel frattempo che la mia insegnante privata cerca concentrata un esercizio sul libro, strizzando appena le palpebre e arricciando le labbra, io mi palpo il cazzo da sopra la patta, protetto dal ripiano del tavolo. L’altro giorno sono riuscito a sbrodare così, strizzandomelo da sopra i calzoni, eccitato dal contatto della mia spalla con la morbida tetta di Sonia, calatasi su di me per correggere un’equazione che non tornava, riuscendo ad andare avanti un ¾ d’ora prima di ricorrere al bagno (dopo essermi versato appositamente addosso, simulando un movimento maldestro del braccio, un bicchiere d’acqua per camuffare la vasta macchia che si estendeva al centro dei pantaloni) e menarmelo come si deve annusando la sua biancheria intima. Ma oggi non c’è verso, accidenti! È duro come un ramo, che posso romperci le noci, che il diavolo in persona mi deporti all’inferno seduta stante! “Cosa c’è che non va?”, mi fa ad un tratto Sonia, squadrandomi da dietro occhialini dalla montatura rossa, in perfetto pendant col cuore stampato al centro delle bocce. “Sei più distratto del solito. Stai bene?” “S-sì”, balbetto confuso, “è solo che ho un po’ di mal di pancia”, azzardo, “sarà stata l’aranciata fredda”, e mi porto le mani in grembo, simulando un crampo. “Vai vai, vai pure in bagno”, dice Sonia poggiando le lenti sul libro e alzandosi, “io ne approfitto per sciacquare i piatti, che non ho avuto tempo di farlo prima”. Filo via in bagno, mi chiudo dentro e mi fiondo come il lupo sulla pecora nel portabiancheria di vimini. Ci frugo dentro impaziente, col cazzo che mi urla nelle mutande, e tiro fuori un perizoma nero con la retina sul davanti che mi accende come un’insegna a neon. Tiro giù le brache e mi accascio sulla tazza, portandomi al naso l’esiguo indumento. L’odore di fica mi dà alla testa come una tirata di popper. Mi sego con la sinistra, mentre mi studio il perizoma con occhio clinico. Nel breve spazio che fa da cavallo c’è una macchiolina bianca, al centro della quale è incollato un pelo riccio e nero. È davvero troppo! Intensifico la sega, attorcigliandomi l’intimo intorno alla mazza dura, e utilizzando la destra, con cui ho più confidenza, e sto per sburrare quando l’occhio mi cade sulla mensola sopra la lavatrice, sulla quale troneggia un portaritratti di cui non avevo memoria. La cornice ospita 5 foto di Sonia in costume da bagno, posizionate in modo da non coprirsi a vicenda, così che possono essere apprezzate nella loro opulenta gioiosità le forme sinuose del soggetto. Lo afferro e comincio a passarle ai raggi X, riuscendo al contempo a non far calare di giri il ritmo della raspa. Ce n’è una in particolare che mi manda in pappa il cervello, ed è la foto che la riprende da dietro, un primo piano del culo, in pratica, che vien su in tutto il suo splendore, in virtù di un microslip discretissimo che lascia le chiappe gemelle libere di prendersi tutto il sole che vogliono. Vi sbrodo abbondantemente sopra, mordendomi a sangue il labbro inferiore per trattenere l’urlo che sento devastarmi dentro. È a quel punto che Sonia bussa alla porta chiedendomi se va tutto bene. “S-sì, sì”, mi sorprendo ancora a balbettare, con l’arnese stretto nel pugno che non intende ammosciarsi, “esco subito”. Esco subito un par de palle! Prendo a menarmelo ancor più ferocemente di prima, prendendo di mira stavolta il primo piano delle tette. Il reggiseno le copre giusto l’area dei capezzoli, così che emerge prepotentemente tutto il resto, un vero e proprio ricovero lussurioso per uccelli in calore. E il mio lo è, eccome! Ha un sorriso aperto come una veranda, in questa foto, e due occhi maliziosi che sono un invito a sbatterglielo lì nel mezzo fino a venire, per lasciarle sotto al mento una bella barbetta bianca. Ed è quello che succede… godo per la seconda volta, inquacchiando di sperma l’intera superficie vetrata del portaoggetti. Sto ripulendo cazzo e portaritratti, sistemandolo al suo posto, dopo aver vinto la tentazione di sfilare una foto ricordo e trafugarla nelle tasche, quando Sonia bussa per la seconda volta. “Ecco ecco”, la rassicuro aprendo l’acqua, “sto uscendo”. “Se hai bisogno degli asciugamani, sono nello stipo sotto al lavandino”, dice. Poi aggiunge, non trattenendo un tono divertito: “magari ne hai bisogno…” Raccolgo l’invito e mi sciacquo cazzo e palle, tamponandoli con un asciugamani da bidè rosa e morbida come ovatta, che dopo l’uso getto nel cesto della biancheria sporca. Ritorno in salotto e mi siedo al tavolo. Sonia è di fronte a me, con le cosce grassocce accavallate, fuma una sigaretta e beve qualcosa di giallo da un bicchiere a stelo. “Non te ne offro perché è leggermente alcolico e non mi sembra il caso, dopo questa lunga seduta”, mi fa sorridendo. “Come ti senti? Ti son venute fuori due occhiaie da paura”. “Meglio, grazie. Molto meglio”, rispondo prendendo biro e quaderno e calando la testa su numeri e limiti che proprio non mi entrano dentro. Riprendiamo a lavorare di buona lena e quasi mi si sta trovando un esercizio quando vibra il cellulare di Sonia. Lei lo prende, sbircia il numero sul display, quindi mi chiede scusa e si alza, dandomi le spalle al momento di rispondere e avviandosi verso la cucina, per recuperare un po’ di privacy. Seguo il suo grosso culo – il cui solco ha risucchiato il tessuto necessario affinché siano nette le forme prepotenti delle chiappe – fin quando non scompare dietro la porta, e la sento prima miagolare sdolcinata, poi incattivirsi via via che la conversazione prende una piega che non le piace, per poi sbottare in urla isteriche e in epiteti che non sto qui a ripetere, culminanti in un vaffanculo secco come lo schiocco di un ramo che si spezza che chiude definitivamente la telefonata. Quando ritorna in soggiorno, gli occhi di Sonia sono gonfi come marsupi di benzinai. Si è sciacquata il viso, ma non c’ha guadagnato molto. Si siede, tira su col naso, mi prende il quaderno e inforca gli occhiali. “Bravo”, dice poco dopo con voce nasale, “stai cominciando a capire”. Poi sfila di nuovo gli occhiali, li lascia cadere sul tavolo e si copre il viso con entrambe le mani, riprendendo a singhiozzare, sollevando e abbassando le spalle. Rimango interdetto, senza sapere che fare. Vorrei dirle qualcosa, ma le parole mi si seccano in gola. Alla fine, rompo gli indugi e le poggio una mano sulla spalla tremante più vicina. Il contatto la fa scattare come una molla, si fionda verso di me col volto disfatto dalle lacrime, mi abbraccia forte il collo, piangendo ora a dirotto e bagnandomi il viso e la maglietta sulla spalla sinistra. Poi comincia ad inveire contro un uomo, quindi contro il genere tutto, colpevole, a suo dire, di non andare oltre l’uccello che gli penzola fra le gambe. Allenta la presa al collo e scivola sul petto come un palloncino ad aria bucato, fino ad afflosciarsi sulle gambe, la testa poggiata sulle braccia conserte. I singhiozzi mi giungono soffocati, ma costanti. Le accarezzo la testa, infilo le dita nell’intrico ricciuto della sua chioma, improvvisando parole di conforto che, a conti fatti, si riducono in su dai, Sonia, non fare così, e che hanno l’effetto contrario di raddoppiare la sua disperazione. È un momento piuttosto imbarazzante, per usare un eufemismo, e come se non sia già sufficiente la scena in atto, il contatto della testa di Sonia col mio ventre risveglia la bestia nelle mutande, che, insensibile come solo un cazzo sa essere (non conosco i fatti, ma su questo la prof ha ragione, garantito al limone!), comincia a stiracchiarsi, inturgidirsi, fino a diventare duro come un pugno. Lo sento che preme con forza contro qualcosa, forse la fronte di Sonia, o il suo naso, il che non facilita per nulla le cose. Cerco di distrarmi, mentre ripeto come un automa i miei su dai, Sonia, non ne vale la pena, ma lo sguardo mi cade proprio lì, sulla porzione di schiena scoperta dalla risalita della t-shirt favorita dalla posizione della donna, e in particolare noto una striscia di pelo scuro che s’incunea oltre l’orlo degli shorts, i quali, con forza contraria alla salita della maglietta, sono scesi quel tanto da svelare l’inizio dello spacco del culo. Delle mutandine o affini, nessuna traccia! La scatola nera del cervello registra e manda il tutto per direttissima al cazzo, che si erge come l’obelisco dell’Immacolata, incurante del peso che gli grava addosso. Arrossisco in modo direttamente proporzionale al lento rialzarsi della testa di Sonia, che ha smesso di piangere e, tirando su col naso per l’ultima volta e riacquistando la postura eretta, adesso mi guarda sbigottita, gli occhi arrossati e spalancati come finestre, la bocca conformata attorno ad un oh di meraviglia e di incredulo stupore. “Che succede, Lerry?”, mi fa con un tono di voce catatonico. “Ehm… Sonia… niente… perché, che succede?”, provo a fare il nesci, ma sento le mie gote colpevolmente scottare. Roba da poterci friggere due uova sopra tranquillamente. Lei indica col braccio teso l’erezione che disegna un colle prominente e pulsante fra le mie cosce. “Cos’è quell’affare?”, dice tutta seria, senza tirar giù il braccio teso e l’indice accusatorio, teatralmente tremante. “Io… io… io non so che dire, Sonia… non è colpa mia”, frigno scusandomi goffamente. “Lo so che non è colpa tua, Ren, ma…”, si blocca cercando da qualche parte il resto della frase, senza riuscire tuttavia a scollare lo sguardo dalla mia patta tirata al massimo, tanto da allentare la chiusura della zip che perde qualche dente, lasciando affiorare la curvatura bianca degli slip. “È mostruoso!”, conclude infine, alzando inconsciamente, forse, la voce di un semitono. L’aggettivo utilizzato con cotanta enfasi ha l’effetto di uno schiaffo in pieno viso, e arrossisco ancora di più. Roba che un ravanello al cospetto sembrerebbe anemico. Non desidero altro che mi si ammosci di colpo, o, in alternativa, correre in bagno e grattugiarmelo davanti al portaritratti sulla mensola, ma il compare, lì sotto, non ha affatto intenzione di abbassare la testa, anzi ne acquista in spavalderia e arroganza, gonfia il petto e guarda il suo oggetto del desiderio dritto negli occhi. Quando Sonia, dal canto suo, si riprende dallo stato di trance, stacca lo sguardo dal mio grembo per guardarmi in faccia e si accorge della mia espressione tutt’altro che giuliva, si rabbonisce di colpo, mi prende il volto tra le mani e con voce dolcissima imbastisce un discorso piuttosto disarticolato, del tipo: “Oh piccolo, scusami, non volevo essere brutale e offenderti. È solo che… sì, insomma, non mi capita tutti i giorni di trovarmi davanti… cioè, capisci? Sei un ragazzino, conosco tua madre… insomma, hai l’età dei miei alunni… cioè, sei un mio alunno… potresti essere mio figlio, e insomma i figli non è che hanno di queste manifestazioni, diciamo così, davanti alle loro madri… e…” “Ma tu non sei mia madre”, trovo la forza di dire. “Sì, certo tesoro, non sono tua madre… non volevo dire questo… è solo che… sì, insomma, dai, è normale negli adolescenti… non è successo niente di male, è tutto normale”, conclude contenta di aver trovato la giusta formula per archiviare questo momento. Ma poi cala di nuovo lo sguardo e il cazzo è sempre lì sugli attenti, rivestito di cotone leggero che sembra sul punto di strapparsi, da tanto che è teso. “Cristo…”, sfiata in un sospiro, “deve soffrire parecchio lì dentro. Ti fa male?”, mi chiede senza guardarmi in faccia. “Un po’ sì”, rispondo roco. “Si è fatto così duro per me?”, mi chiede ancora, seria in volto ma con gli occhi pervasi di una nuova luce. “Ehm… sì, Sonia… mi dispiace”, dico confuso, oramai completamente in palla. “Ti dispiace?!”, ribatte lei, quasi inorridita per aver sentito ciò che deve aver giudicato come un’aberrazione, “Ma io sono lusingata, Lerry. Vuol dire molto per una donna, sai, sentirsi apprezzata così. Specie quando si trova sposata ad uno stronzo che manco la guarda più”, conclude amara. Poi, si ravviva di colpo e con voce squillante, sorridendo, chiede: “E cosa ti ha fatto diventare così… sì, insomma, così eccitato?” “Bè, insomma… tutto… mi piaci tutta”, dico d’un fiato, pentendomi immediatamente. Cazzo significa “mi piaci tutta”? Che coglione sono! “Mmm… sai che mi piace piacere tutta ad un bel ragazzo come te?”, miagola sorniona, rendendo il cacofonico gioco linguistico una musica calda per le mie orecchie e per il vanesio compare del piano di sotto, che gradisce dando una scossa. “Posso toccarlo?”, chiede mordendosi il labbro, e, senza aspettare risposta, lo impugna da sopra la patta. “Uau… è proprio duro!” Evitando di chiedere permesso, seppur formalmente, tira giù la zip e slaccia con un po’ di difficoltà – visto che l’erezione tira allo spasimo l’asola accostandone i lembi – il bottone dei bermuda, il cui scollo è immediatamente riempito dal compare imbracato. L’orlo delle mutande è staccato dal ventre di tre dita abbondanti, così che la mano di Sonia entra con facilità, afferra l’elastico e lo tira verso l’alto, nel tentativo di spoggettare l’uccello, non riuscendo tuttavia ad evitare l’impatto con la cappella, gonfia come una mela annurca, il che fa vibrare, una volta all’aria, tutto il cazzo, come uno di quei pagliaccetti a molla fuoriusciti dalle scatole regalo. “Benedica, Lerry!”, esclama Sonia, a metà strada tra la meraviglia e lo sbigottimento, “Ma è stupendo!”, e lo smuove tenendolo stretto alla base, come fosse una cloche. “Vien voglia di sgranocchiarla tutta, ‘sta pannocchiona”, e senza dire altro cala la testa, spalanca le fauci e ne prende in bocca un bel po’, cominciando a succhiare e leccare, menando la lingua concentricamente lungo i contorni del glande, e applicando un saliscendi con la mano al resto del membro che resta fuori all’asciutto. Dalla bocca non mi escono parole, ma rantoli, invece vorrei tanto dirle che sto per venire, che le sto per esplodere in bocca un litrozzo di sbrodo. Sonia continua quel pompino dei supplizi (il primo della mia vita, detto per inciso, perché il modo con cui Marta qualche volta me l’ha preso tra le labbra non si avvicina minimamente a quello che adesso è in corso d’opera), e a niente serve il mio tiepido tentativo di allontanarle la testa, macché!, rimane attaccata come una sanguisuga per tutti i secondi necessari (non credo di aver toccato quota 60!) affinché il cazzo cominci a spruzzare come un fucile a pompa pallettoni di sperma denso come vischio. Mi sbraco sulla sedia, le gambe stese come corde di equilibristi, la testa reclinata oltre la spalliera, la bocca aperta come una voragine contro il soffitto, muovo il ventre pungolato dagli spasmi, mentre Sonia mugola forte e ingoia, deglutisce sorsate di sbroda senza smettere di menarlo con forza, e quando finalmente si stacca gli ultimi schizzi la colpiscono in pieno viso, colando come serpentelli sulle guance arrossate. “Diomio, quanta ne hai fatta Lerry!”, esplode incredula, pulendosi il viso e gli angoli della bocca col dorso della mano sinistra (la destra è ancora stretta intorno all’uccello che palpita e freme tutto) “Mai vista tanta roba tutta insieme. E mai visto uno godere così presto, accidenti. Ne avevi davvero voglia, poverino”, e mi fa una carezza sulla guancia destra (chiaramente col palmo, per fortuna!). “Oh… Sonia… io… io s-sì… tanta. Ma… m-mi dispiace… io non sono riuscito a fermarmi, ad avvertirti e… scusami, ti ho tutta sporcata”, pigolo col fiato corto, ancora scosso, col cuore che mi pompa forte al centro del petto. “Sporcata? Sporcaaataaa?!”, ripete aprendo la bocca in un sorriso di gioia, “Ma che dici, cucciolo. Io sono lusingata da tutto questo seme!”, e si fionda verso di me schioccandomi un bacio sulle labbra con le sue ancora appiccicose, per ritrarsi subito dopo, mollare l’uccello e ricadere a gambe aperte sulla sedia di fronte a me, in una posizione del tutto simile a quella che sto assumendo io. Nonostante sia ancora intontito, non mi sfugge una macchia piuttosto estesa al centro del cavallo dei suoi shorts (il cui significato, però, abbisogna di ancora un po’ di tempo per essere decodificato dalle mie sinapsi intorpidite, invischiate di glassa postcoitale). “Certo che con un manganello del genere farai la felicità della tua ragazza”, insinua maliziosa, mentre prende una sigaretta dal pacchetto, l’accende e sputa il fumo verso il soffitto. “Ehm… ‘nsomma”, rispondo mesto. “Come sarebbe a dire ‘nsomma? Non dirmi che Marta… si chiama così, vero?” Annuisco. “Allora? Dai, parla”, insiste lei, carezzandosi distrattamente l’interno coscia destro. “Allora niente. Marta ancora non si decide ad un rapporto completo, diciamo così. Dice che non è pronta, che ha un po’ paura e le deve passare, perché vuole sia una cosa bella per entrambi ecc. ecc.”, espongo laconicamente il refrain che da quando stiamo insieme, ovvero da sei mesi, fa da sottofondo alle discussioni tra me e Marta. “Bè, non ha tutti i torti”, riflette Sonia, “Se non si sente ancora pronta, è giusto che tu non la forzi e le dia tutto il tempo necessario. Sei un gentiluomo, Lerry”, e mi allunga una pacca cameratesca sul ginocchio. “Certo che per te dev’essere dura”, aggiunge, strizzandomi l’occhio affinché la malizia sia ancor più evidente. “Mooolto”, chioso. “Quando sarà il momento, vedrai che non te la scollerai più di dosso”, profetizza divertita, spegnendo la sigaretta ancora a metà nel posacenere. Poi, come attraversata da una folgorazione, mi punta con un paio di enormi occhi indagatori e mi fa: “Aspetta aspetta… non sarai mica ancora vergine, Lerry?!” Arrossisco, come se fossi stato colto in flagranza di reato, e annuisco con la testa, senza aprir bocca. “Oh che tenero, sei arrossito”, squittisce sempre più divertita. “Non devi vergognartene, sai. In fondo hai solo 17 anni, sei poco più che un bambino. Presto arriverà il tuo momento e…” Sono sensibile all’argomento, per cui sbotto interrompendola: “Bè, bambino un corno… i miei amici l’hanno tutti già fatto, non fanno che parlare di quello, di come lo fanno, di come godono e fanno godere. È uno strazio. Lo scorso Natale ero lì lì per entrare anch’io nel club, ma poi, accidenti…”, il discorso mi cade qui, ricordando quella cazzo di serata sfigata. “Cioè?! Dai, racconta, racconta… sono curiosissima”, mi tampina Sonia, accavallando le gambe e puntellando col gomito sulla coscia il braccio destro, sulla cui mano poggia il mento, assumendo così la posa più classica dell’uditrice interessata. “Uhm… non c’è molto da dire. Eravamo a tavola in un agriturismo dalle parti di Grosseto, la sera della Vigilia, tutta la famiglia riunita a gran completo, cosa che non capita spessissimo. Io ero seduto vicino ad una mia cugina, di una decina d’anni più grande di me. C’era un bel clima allegro e goliardico, favorito dal vino che scorreva a fiumi, com’è che si dice, e mia cugina era su di giri. Parecchio su di giri. ‘Nsomma, per non portarla sulle lunghe, ad un tratto, durante uno dei canti che intervallavano le portate, sento la sua mano poggiarsi sulla patta, slacciarmi il bottone e tirare giù la zip. Lei faceva finta di niente, un po’ cantava, un po’ parlava col fidanzato accanto, sempre tenendo il mio cazzo nel pugno, che intanto era cresciuto notevolmente, indurendosi come un pezzo di pane raffermo. Ha cominciato a menarmelo lentamente, ma con decisione, tirando giù la pelle al massimo, tenendo il polso fermo e muovendo solo la mano, fin quando non ha avvertito la vena centrale ingrossarsi in prossimità dell’orgasmo. Io, rosso in faccia, tenevo lo sguardo calato nel piatto, come se un magnete incorporato nel calamaro alla brace calamitasse le mie pupille, incapace di guardare lei o chiunque altro né, tantomeno, forchetta e coltello a mezz’aria, riuscivo ad attaccare il cefalopode, che ghermiva il mio olfatto con i suoi vapori da barbecue. Qualche istante prima che venissi, con nonchalance mi ricopre l’uccello col tovagliolo che aveva sulle gambe, raccogliendovi tutta la mia venuta. Riesco a sfangarla agli occhi degli altri, fingendo di raccogliere qualcosa per terra, così da nascondere l’orgasmo che mi aveva devastato e rinfoderare il membro bagnato”. “Mmm… che porcellina tua cugina”, commenta Sonia, sempre più addentro alla storia. “E poi cos’è successo? Non è mica finita qui?” “No, purtroppo non è finita qui”, dico mentre accetto una sua sigaretta. Sonia fa accendere prima me, poi accosta la fiamma alla sua, invitandomi a non tirarmela troppo e ad andare avanti. “Dopo la mezzanotte, tutti gli ospiti dell’agriturismo si sono lanciati nei balli, l’orchestra ci dava dentro alla grande e la gente si riversava anche in giardino, grazie alle stufe a fungo che, insieme al vino, rendevano sopportabile l’aria fredda”. “Mmm… sì… mi piace come racconti, Lerry. Sei preciso, pieno di particolari e dettagli… così, continua così”, m’incoraggia Sonia. “Ok. Allora, io sono lì che dimeno culo e braccia al centro della pista improvvisata, a pochi metri dal complesso, e vengo raggiunto da Amalia – che sarebbe mia cugina -, smarcatasi dal fidanzato che, bollito come uno stracotto, se ne stava seduto papale papale a brindare col futuro suocero, entrambi oramai incapaci di eseguire altro dal movimento della mano per portare il bicchiere alla bocca. Cominciamo a ballare, a saltellare tutti e due euforici”. “Com’era vestita Amalia?”, m’interrompe di nuovo Sonia. “Aveva un vestito scuro lungo, che le evidenziava la linea sinuosa del corpo fino alle caviglie, ma con un vertiginoso spacco sulla destra. Il vestito non aveva bretelle, così che le spalle rotonde erano nude…” “Ancora non me l’hai descritta. Com’è Amalia?” “Piuttosto alta, con una fluente chioma rossa. Fisicamente somiglia a Jessica Rabbit, per intenderci”. “Uau… un figone, allora!”, commenta Sonia. “Bè sì, almeno di fisico, come ti dicevo. Di viso non è un granché. Ha un naso grosso e un po’ schiacciato, le labbra sottili e uno strabismo che, sebbene lieve, non dà mai modo di vedere cosa stiano fissando i suoi occhi. Però ha un corpo da sballo, in effetti. Due bocce toste e un culo da cavalla poggiato su un paio di cosce che si snodano a perdita d’occhio”. “Ahahahahahah”, ride, “Sei troppo forte Lerry! Dai, continua…” “Dopo un po’ che balliamo, mi dice all’orecchio che ha una canna già bell’e pronta e vorrebbe fumarsela con me fuori in giardino. Non aspetta la risposta, mi prende per mano e attraversiamo il mucchio selvaggio e danzante che affolla la pista. Troviamo un posto tranquillo dietro uno di quei bugigattoli di legno in cui si mettono gli attrezzi. Infila la mano fra le tette e, strizzandomi l’occhietto con fare cospirativo, pesca uno spinello stropicciato come le cicche di Jighen. Lo stende tra le dita lunghe dalle unghie smaltate in tono con la mise, ridandogli la sua forma propria. Poi lo accosta alla fiamma di un accendino tirato fuori da non so dove. Fumiamo in piedi e in silenzio, sorridendoci e passandoci la canna ripetutamente. Poi, a bruciapelo, mi chiede se m’è piaciuto quello che mi aveva fatto a tavola, o meglio sotto al tavolo. Io fumo raramente ed ero già lesso come una zucchina, per cui arrossisco e faccio sì con la testa, sfuggendo il suo sguardo. Lei mi stringe il pacco duro e mi dice di non fare il timido, che lo so che fra le gambe ho un pezzo da 90. Proprio così dice, pezzo da 90”. “Come darle torto, ad Amalia. Continua”, mi intima decisa Sonia, stringendo tra i denti un pezzetto di labbro, “Continua, che mi stai eccitando…” “Voglio che me lo metti dentro, mi dice. Renato è tanto caro, ma un affare così se lo sogna ed io voglio togliermi ‘sto sfizio. Tanto siamo cugini, non vale. Così dice e si mette a ridere. Poi, sempre tenendomi per il cazzo, apre la porta del bugigattolo ed entriamo dentro. Si vede poco, ma si vede, grazie alla luce della luna che entra dall’unica finestrella sulla nostra destra. Dentro al bugigattolo ci sono effettivamente gli attrezzi del giardino, ma anche dei sacchi di terriccio, sui quali si stende Amalia, dopo aver mollato la presa dalla protuberanza del mio basso ventre. Si tira su la gonna fino alla pancia. È senza mutandine, così appare subito la fica. È senza peli, eccezion fatta per una striscia larga due dita che taglia nel mezzo il Monte di Venere”. “Cazzo, Lerry… mi stai facendo bagnare” (ed ecco che si accende la lampadina! La macchiolina al centro degli shorts di Sonia, notata poco prima, altro non è che l’effetto dell’eccitazione. Dunque, il piacere datomi nella fellatio non era a senso unico. Gioisco dentro di me, come un cagnolino che ha riportato indietro la palla, meritandosi la carezza e l’encomio del padrone). “Continua, ti prego, continua…”, e nell’esortarmi, sempre mantenendo la posa del Pensatore di Rodin, si stringe con discrezione la mano libera fra le cosce, agitandosi appena appena sulla sedia. “Il fascio di luce la becca proprio lì, sul ventre, così posso costatare che la strisciolina di pelo è dello stesso colore dei capelli. Era la prima volta che mi trovavo così vicino al sesso di una donna. Con Marta stavamo insieme da scarso un mese e, visti i suoi tempi, ancora non avevo visto com’era fatta dalla cintola in giù. Ad ogni modo, allarga le gambe e mi dice di abbassarmi i pantaloni. Io eseguo e…” “E ce l’hai già in tiro”, conclude Sonia con voce roca. “Esatto. Mi rampa sotto l’ombelico e trema dalla voglia. Amalia lo afferra e lo stringe forte. Nel palmo dell’altra mano raccoglie i coglioni e li soppesa. Hai un membro impressionante, ma pure le palle fanno paura, dice, sono durissime per quanto sono piene. Nonostante tu sia già venuto! Meglio saltare i preliminari, conviene, ficcamelo subito dentro. Allora salgo con le ginocchia sui sacchi di terriccio, mentre lei si sfila dalla testa il vestito, per non sgualcirlo o sporcarlo, e libera un paio di tette che mi mozzano il fiato nei polmoni”. “Mmmm… com’erano, com’erano?”, m’interrompe con lieve affanno Sonia, agitandosi di nuovo sulla sedia. “Di un bianco lunare, ferme e grosse come mozzarelle di bufala. Al centro dell’areola larga e rosa si ergevano un paio di capezzoli dritti e sugli attenti, come soldatini di piombo”. “Oh sì, mi sembra di vederli… continua, Lerry”. “Non ti ci affezionare troppo, che l’epilogo è deludente”, dico amareggiato. “Che vuoi dire?”, ribatte Sonia, le sopracciglia che si increspano interrogativamente con l’aggrottarsi della fronte. “Voglio dire che quelle tette mi vanno subito alla testa, non capisco più niente. Amalia mi tira per le chiappe per farmi avvicinare, ed io vedo la cappella che pulsa ad un pelo dalle labbra della passera, già aperte e trepidanti. Cazzo aspetti, Ren, fa lei, sbattimmelo dentro, che non ce la faccio più. Come ipnotizzato, afferro quelle grosse bocce e prendo ad impastarle. Lei mi aggancia con le gambe le reni e si tira contro il cazzo, artigliandomi i glutei e ansimando forte. La cappella adesso sfiora le labbra, sta entrando… Ed è in quel momento, in quell’attimo che precede l’entrata in scena della mia prima scopata, che il bischero prende a spruzzare come un idrante”. “Ommioddio!”, esclama Sonia balzando dalla sedia e coprendosi la bocca con entrambe le mani, come se avesse appena visto un sorcio sul divano in pelle del suo salotto. “Povero il mio cucciolo…. ma povera anche la cuginetta, che ci aveva fatto la bocca”, e ride divertita – quasi felice, mi verrebbe da dire. “Ma dimmi”, ritornando seria, “ne hai fatta tanta come prima?” “Penso di sì… non finiva più, la colpivo ovunque, pancia seni viso capelli. Si copriva il volto mettendo le mani avanti, ma il casino era bell’e fatto”. “E cosa ti diceva, mentre la schizzavi a quel modo?”, chiede sempre più divertita. “Ahè… imprecava, mi diceva di smettere, come se poi dipendesse da me. Ha cominciato ad offendermi quando ha visto che il suo vestito non era stato risparmiato…” “E tu?” “Io volevo morire. Mi sono rivestito in fretta, e, quando ha realizzato che me ne stavo andando, ha protestato, dicendo che non potevo lasciarla così, che avevamo un conto in sospeso. Però, non ce l’ho fatta, stavo morendo dallo scorno, mi sono divincolato con uno strattone dalla mano con cui mi teneva il braccio e son scappato fuori”. “Uhuhuh… piccolo Lerry”, cinguetta godendosela alla grande, “Ma sono contenta, sai, che sia finita così, perché adesso me la pappo tutta io la tua verginità. Ho una gran voglia e una buona dose di arretrati… e mi sa che anche tu ne hai, visto che ti è tornato duro”, conclude occhieggiando alla mazza dura – che in verità non si era mai ammosciata. “Vuoi infilarmelo dentro, Lerry? Vuoi?” “Oh, Sonia…”, sospiro, “sì!” * La camera da letto di Sonia è ammantata da una fresca penombra. C’è tutt’intorno odore di pulito e i pochi mobili – giusto un armadio quattro stagioni con specchi come ante, una toletta con tutto l’occorrente per truccarsi ordinatamente disposto e allineato sulla piccola mensola sotto lo specchio e un’ottomana, posizionata tra una poltrona stile Luigi XIV rivestita di velluto verde e un servomuto della Foppapedretti, sul quale trova posto un completo da uomo impeccabilmente stirato – riflettono la poca luce, nei cui raggi non danza la miriade di pulviscoli che si vede spesso in ambienti non propriamente igienizzati. Come la mia camera, ad esempio. Il talamo nuziale, bello grande e incastrato tra due comodini entrambi forniti di abat-jour – quello di destra corredato da un libro bello spesso, di cui non leggo il titolo, quello di sinistra equipaggiato di telefono fisso e portaritratti d’argento che incornicia l’uscita dalla chiesa dei due novelli sposi, sorridenti e felici nonostante la pioggia di riso che li investe – è perfettamente rigovernato, con le lenzuola gialle a fantasia floreale tirate su con la squadretta, e i guanciali gonfi e soffici come cirri in una mattinata di primavera. Sonia mi tiene per mano e mi precede di un passo. Guadagna il centro della stanza, poi si volta, poggia le mani sulle mie braccia e mi guarda sorridendo. Poi, come se fossi un manichino o la manopola di un forno, mi gira di 180° e mi dà una spinta, facendomi planare sul materasso duro, ergonomico. Quindi mi sfila mutande e bermuda, slaccia le scarpe e toglie anche i calzini – e qui ho un sussulto, ché l’accoppiata All stars-caldo non fa precisamente la felicità dell’olfatto. Ma la mia chaperon non fa una piega e mi sfila anche la t-shirt. Così denudatomi, si tira su, incrocia le mani sotto la sua t-shirt e la sfila dalla testa, scoprendo un paio di seni grandi e rotondi – appena bassi sul ventre arrotondato -, dalle areole più larghe di quelle di Marta e di Amalia, e anche più scure, leggermente gonfie e ornate da un paio di capezzoli turgidi, scuri e a punta. La maglietta trova l’intoppo del fermaglio di legno che tiene fermi sopra la nuca i capelli, così che questi cade con un rintocco secco sul parquet sciogliendo la matassa di ricci che le si riversa sulle spalle rotonde. Sonia scuote forte la testa, frustando l’aria con i boccoli, e mi ringhia contro mostrandomi le unghie della mano. La gag mi fa ridere di gusto. “Ridi ridi, ridi pure, giovanotto… tra poco vedremo se ne avrai ancora la forza”, mi redarguisce fintamente minacciosa. Poi infila i pollici tra le ossa iliache e l’elastico degli shorts e li tira giù, facilitandone la discesa lungo le cosce piene con ampie sculettate. Ho la conferma che non porta le mutandine, per cui istantaneamente mi si palesa una criniera folta, nera come il petrolio, e riccia, che le copre rigogliosamente il Monte di Venere – uno spettacolo del tutto simile a quello offerto dall’Origine della vita di Courbet al Musée d’Orsay, che sconvolse il mio immaginario da dodicenne allorché rimasi imbambolato, davanti a quel quadro, con la bocca aperta e gli occhi di fuori, fin quando mio padre, visibilmente imbarazzato davanti agli astanti divertiti, mi prese per un braccio e mi trascinò di peso dietro di lui, come si fa con una sedia presa per la spalliera. Deglutisco incantato, mentre sento il cazzo sussultare dalla gioia, come un bambino goloso all’arrivo della pappa. Da parte sua, lo sguardo di Sonia non sembra essere meno partecipe e fissa la mia erezione sprizzando cupidigia dagli occhi brillanti, come asfalto bagnato sferzato dai fari. Con un balzo mi è sopra, a cavalcioni. Mi bacia la fronte, gli occhi, il naso, la bocca, con i capezzoli che mi sfiorano il petto, producendo scariche elettriche che mi fustigano il corpo, ricoprendomi di brividi. Poi comincia a scendere lentamente, stampando rapidi bacetti e stoccate di lingua dietro le orecchie, sul mento, sul collo, al centro del petto, e da lì devia verso un capezzolo, che subito si inturgidisce, sventagliando un’altra serie di brividi che mi accappona la pelle, quindi riserva lo stesso trattamento all’altro, prima di imboccare la linea di pelo che dallo sterno, attraversando il ventre, conduce alla regione sub ombelicale. Ma a quel punto si blocca, perché il culo trova l’ostacolo del compare ben dritto sugli attenti, ed è come se si ritrovasse a cavalcioni di una staccionata. Guardandomi dal basso verso l’alto e sorridendomi, scarta di lato, acciambellandosi morbidamente accanto a me e afferrando il coso inteccherito alla radice. “Ci siamo, eh, piccolo Lerry. Sempre duro ce l’hai! Guarda qui, sembra che trema… hai tanta voglia, vero? Non vedi l’ora di infilarlo dentro alla fica della tua prof, di’ la verità, mascalzone”, m’interroga con voce a sua volta impaziente. Annuisco con forza, incapace di profferir parola. Sonia mi guarda e spalanca le fauci. La lingua guizza fuori come una biscia. I denti bianchissimi mandano uno scintillio. Poi, cala la testa e la cappella sparisce in quella voragine voluttuosa. Ho un fremito che mi striglia le reni. “Vuoi venire ancora così?”, chiede staccandosi e prendendo fiato. Non so cosa rispondere. Voglio chiavare, ma allo stesso tempo sono pervaso da un incipiente bisogno di liberarmi dallo sbrodo che sento premere nei coglioni. “Ma non bisogna essere egoisti, Lerry. Generosi sì, egoisti mai. Ho molto da insegnarti…”, dice e, con l’agilità di una esperta cavallerizza, alza la gamba destra e mi è di nuovo a cavalcioni, nella posizione contraria a quella assunta prima, di modo che il mio sguardo adesso è completamente riempito dal suo grosso deretano. La posizione non è estranea alla mia nutrita cultura da pornomane, ma un conto è tirarsi una sega davanti un 69 in onda sul video del pc, ben altra cosa è avere un culo a pochi centimetri dalla bocca. Una zaffata densa di ormoni e sudore, che esala dalle chiappe ben divaricate, mi stupra l’olfatto mandandomi in delirio. Intanto, Sonia ha ripreso a ciucciare, a smanettare, a pilotare la lingua prima sui contorni della cappella, poi lungo il tronco, ripetendo la serie a buon ritmo e sculettando energicamente come esortazione a darmi una mossa. Allora abbranco a due mani le natiche maestose, ne ammiro le due dita di cellulite che ne fanno da supporto, saldandole alle cosce massicce, le allargo fino a dilatare percettibilmente l’ano, grinzoso e scuro, come un paio di labbrucce atteggiate a broncetto, studio incantato il tragitto del pelo morbido e umido che riveste l’interno delle chiappe e che unisce il buco del culo alla valle della fica, che mostra le vellutate labbra rosa già aperte, come la bocca di un fiore carnivoro, e, infine, affondo il viso in quel solco lussurioso. Intontito dall’afrore intenso, selvatico, come di muschio bagnato, mando la lingua a pascolare in quella voragine, senza il metodo e la tecnica dell’esperienza, ma disordinatamente, spennellando le labbra con corpose slinguazzate che fanno fremere Sonia che, come reazione serra cosce e ginocchi intorno alla mia testa, senza rinunciare tuttavia a succhiare, mordicchiare, slinguazzare a sua volta il cazzo, in maniera sempre più spasmodica e frenetica, mugolando forte e raspandomelo smaniosa, procurandomi un piacere così intenso da essere scambiato in alcuni momenti per dolore vero e proprio. È mentre mi convinco che non posso resistere oltre che Sonia dà un urlo di gola, roco e prolungato, tirandosi su e schiacciando il culo sul mio viso, sfregando la fica con furia sulle mie labbra e sulla lingua che continua a leccarla, nonostante il bruciore che esplode in tutta l’area dal naso in giù. Una mano rimane stretta intorno all’uccello e lo smuove disarticolatamente, come se fosse la leva di comando di quel suo rinculare sulla mia bocca, mentre con l’altra arpiona la rotula del mio ginocchio usandola come appoggio per le sue spinte sempre più furiose. “Continua, Lerry, continua continua, non ti fermare… oh-mio-Dio, oh-mio-Dioooo…”. Ed io non mi fermo, cazzo, e lecco come un assetato quelle labbra tremule, ridotte in poltiglia per il reiterato pungolare a cui sono sottoposte, mandando giù il liquido che prende a colare come da un favo, e che mi impiastriccia gli sparuti peli che compongono il pizzetto spelacchiato (giusto un po’ di baffo biondastro e della lanugine ramata che punteggia a macchia la parte inferiore del mento, mentre le gote ancora non registrano nessuna traccia di veri peli da barba, infestate come sono da una sadica e persistente acne). Chiamando in causa un’ultima volta il dio che ha voluto come testimone del travolgente orgasmo che la sta investendo, Sonia stramazza sulle mie gambe, prima di scivolare di lato, a pancia in su, il petto che le batte forte (i grossi seni sobbalzano come sottoposti a ripetute defibrillazioni, riversandosi scompostamente ai lati del costato), le cosce che tremano, la mano sempre stretta intorno alla mazza in una presa salda, come per effetto del rigor mortis (senzazione sperimentata un paio di anni fa, stringendo la mano di mio nonno che spirava l’ultimo respiro. Paragone macabro, questo, convengo, ma è quella che provo in questo momento, vedendo la cappella sempre più viola, di un colore quasi cianotico. Eros e Thanatos – avrebbe commentato il prof di Filosofia, dall’alto della sua saggezza – complementari impulsi della vita presa nella sua essenza, alla radice). Ha gli occhi aperti, ma le pupille sono rivolte verso l’alto, così che è quasi tutta sclera quella che vedo, e la bocca è spalancata come se stesse seduta sulla poltrona del dentista, ed emette un gorgoglio sinistro, da lavandino intasato. Prendo posizione su un fianco, cercando di allentare la sua presa sul cazzo, senza riuscirvi, e le accarezzo la superficie delle cosce, punteggiate di brividi e con la peluria elettrizzata tutta su, incentivando inconsapevolmente i fremiti di entrambi gli arti inferiori, che adesso scattano e scalciano come in una prova di riflessi. “Oh no, Ren”, sospira, “lasciami prendere fiato… sono percossa dagli spasmi”. Poi, tira su la testa quel poco che le occorre per guardarmi e notare, evidentemente, un’espressione sul mio volto che giudica dispiaciuta o amareggiata, per cui si affretta a rimediare – maternamente, mi verrebbe da dire. “Non fare quella faccia, cucciolo… è che mi hai fatto godere tanto tanto, lo sai? Sono tutta un tremore. Ma tu…”, ecco che si riconnette col presente e torna sul pianeta Terra, fissando il membro stretto nel pugno, “ma tu… oh, tesoro mio, ma tu non sei venuto… e come sei duro, accidenti. Vieni su, dai… entra dentro di me”, e tira il cazzo verso di sé allargando le gambe, a mo’ di esortazione. Allora mi tiro su e mi posiziono in ginocchio – nella stessa posizione in cui mi trovavo nell’incidente con Amalia – nel compasso aperto delle sue gambe. Finalmente, Sonia molla la presa e mi stringe il collo con entrambe le braccia, tirandomi verso di lei e offrendomi labbra e lingua, per avvilupparmi in uno di quei baci che da soli valgono (quasi) il biglietto di tutta la giostra. Mentre mi faccio frugare in bocca dalla sua lingua, cercando di imitarne a mia volta i movimenti per restituirle il piacere che mi sta dando – o almeno una buona parte di esso -, muovo il bacino per mandare l’asta a bersaglio, ma con scarsi e snervanti risultati. Preso dalla smania, distratto e frastornato da quei baci con tanto di risucchio incorporato, non vado mai nemmeno vicino al pallino rosso, o troppo sopra o troppo sotto o troppo di lato, e deve intervenire Sonia – “Aspetta, cucciolo, aspetta…” – che riaccoglie il cazzo nel palmo della mano e lo orienta per la strada giusta – “Ecco, così… le senti le mie labbra sulla cappella?” -, fin quando, come risucchiato da un vortice, non precipito in quell’anfratto mieloso fino ai coglioni. “Aaaaaahhh”, starnazza Sonia, inarcando la schiena in sincrono con la mia entrata, “ti sento tutto, Lerry… ti sento nello stomaco, cazzo! Quanto sei grosso… mmmmm… non ti muovere, adesso, resta fermo, Ren, non ti muovere, per carità, fammelo assaporare in ogni centimetro… oooh sssììì… sssssììììì!!!” Obbedisco e d’istinto, per avere una presa più salda e restare conficcato immobile dentro di lei il più a lungo possibile, come un chiodo nella croce (ancora Eros e Thanatos… sempre loro, sempre insieme), fino a nuovo ordine, infilo le mani sotto il suo corpo e le acchiappo la carne del culo a piene mani. Mossa azzeccatissima, a quanto pare, perché Sonia mugola forte e gradisce – “Bravo Ren, bravo… cooosììì” -, anzi m’invita a infilarle un dito nell’ano – “Sei capace di mettermi un dito dentro, nel buchetto, Lerry? Ci provi, tesoro?” -, proposta che m’infoia ancora di più, faccio scivolare la mano destra lungo la chiappa sinistra e spingo nel solco il dito più lungo, che subito rimane fradicio degli umori raccoltisi in quella faglia paradisiaca, e, così ben lubrificato, forzo l’anello di carne che immediatamente, come rispondendo ad un comando, aderisce stretto attorno alla prima falange – “Oh sì, bravo Lerry, così… spingilo dentro”, per poi allargarsi e accogliere la nocca e restringersi di nuovo, mordendo la base del medio. “Aaaaaaaaahhhhh… Reeennnyyy…”, ulula Sonia, conficcandomi le unghie nella schiena, “chiavami così, adesso… muoviti forte, tesoro… scopami… SCO-PA-MIII”. Non me lo faccio ripetere una seconda volta e ci do di bacino come se avessi le fiamme al culo, penetrandola selvaggiamente, sempre col dito medio conficcato nel buco fra le chiappe, sbavandole l’acquolina che mi cola dalla bocca sui grossi seni, che ballonzolano freneticamente, come batacchi di campane lanciate a festa, e sudando come una bestia, mentre le sue unghie stanno facendo un gran lavoro sulla mia schiena, ma non avverto dolore, sento soltanto il piacere stordente di questa mia prima chiavata, piacere amplificato dalla visione del suo volto, come trasfigurato, meglio sfigurato da un ghigno che è l’iconografia stessa della lussuria (mi viene il mente la testa di Medusa di Caravaggio), che le smorza oramai qualsiasi parola d’incitamento, articolandosi in una spirale presillabica di ah ah ah a tonalità ascendente, fino a tramutarsi in un urlo animalesco, la bocca che le si apre innaturalmente – mi pare di vedere le tonsille, in fondo all’antro oscuro – le narici che si dilatano, gli occhi che strabuzzano, gli artigli che affondano ancor più nella mia carne viva, scorticandola, strappandola, sbrindellandola, le cosce che mi strizzano le reni, stringendo al massimo la loro morsa, per poi mollare di schianto la presa in concomitanza col calare del grido. Segue un istante di silenzio. La bocca le è rimasta spalancata, come per una paresi, ma le tette non si muovono più, giacciono immobili come cefalopodi sullo scoglio, prive di respiro. Mi blocco a mia volta, il cazzo stretto dalle sue labbra che fremono per gli spasmi, il dito medio come risucchiato dai suoi sfinteri. Poi, Sonia riprende a respirare. Richiude la bocca con uno schiocco del condilo, sbatte le palpebre, sospira. “Ooooh… Lerry…”, esala lasciando cadere all’unisono braccia e gambe sulle lenzuola spiegazzate, “Stu-pen-do… stupendo… mmmmmm… baciami… baciami come prima”, e mi porge le labbra nell’atto di accennare una serie di baci. Mi calo verso di lei e nel farlo il pene, smosso dalla posizione in cui giaceva, ha un guizzo che la fa trasalire. “Oh miodio, ma sei ancora duro… devi ancora venire, mio piccolo Lerry. Adagio, muoviti adagio, amore… piano piano”. In effetti, ero sul punto di venire prima che cominciasse a godere, e il modo platealmente animale con cui ha avuto il suo orgasmo mi ha bloccato e inibito, perciò sono in grado di continuare sul ritmo richiesto e prendo a muovermi lentamente, leccandole allo stesso tempo le labbra arse e calde, il mento, il collo, per poi ripercorrere a ritroso le umide linee tracciate innestandovi bacetti senza rumore, lievi come quelli dei bambini, cosa che la fa gemere e mugolare. Vado avanti per un po’ così, cogliendo a volo anche l’intuizione di sfregarle un capezzolo tra pollice e indice e succhiarle l’altro, doppia variante che ha come effetto immediato l’irrigidimento dei suoi muscoli, di nuovo la tenaglia delle sue cosce attorno alle mie reni, e il nuovo ridisegnarsi sul volto di quel ghigno ferino di femmina in calore, cui segue l’esortazione a chiavarla ancora, a liberarmi di tutto lo sbrodo che mi riempie i coglioni. Eseguo e stavolta vado fino in fondo, fottendo ad occhi spalancati e fauci aperte, per godermi tutto lo spettacolo del suo orgasmo, che sento montare dal profondo dei visceri come il mio, del resto, che è tutto un bruciare qui davanti e anche di dietro, nel buco del culo, allora stringo le chiappe ad ogni affondo, il piacere che mi urtica le pareti interne di qualche organo il cui nome al momento non mi sovviene – non me ne voglia il prof di Scienze – e grugnisco, sì grugnisco letteralmente, mentre sbanfo le ultime possenti stoccate di alfiere e spruzzo, con un aaaaarrrrrgggghhhh da fumetto, tutta la crema che mi farcisce le palle, gonfie come sac à poche, e mi sembra di non finire mai, mi sembra che quel flusso ininterrotto di sperma si porti via tutto il mio interno, aspirando sangue, fibre, muchi, bile, succhi di varia natura, tutto, lasciandomi completamente svuotato di linfa vitale. Quindi, sferzato da un ultimo spasmo, crollo sopra di lei, come se fossi precipitato da una nuvola del paradiso.

Clicca per votare questo articolo!
[Voti: 3 Media: 5]
FavoriteLoadingAggiungi ai tuoi preferiti

One thought on “Sverginità

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *