Gatta da pelare per la sig.ra De Rosa

Gatta da pelare per la sig.ra De Rosa

Quando apprende la notizia circa la presenza di un sistema di videosorveglianza nei garage del palazzo (cfr. il racconto “Videosorveglianza”), la sig.ra De Rosa sbianca in volto, le mani le tremano e perdono la presa sul portafogli rosa shocking marcato Prada che cade sul parquet vomitando un pugno di monete che rintoccano seccamente sul Wengè Africa sul quale si specchia a trentadue denti il sole di mezzogiorno, prima di spalmarsi sulle pareti rosa salmone del salotto riverberando sull’espressione sclerotizzata nel terrore della proprietaria di casa, evidenziandone il pallore innaturalmente diafano.
Giorgina si fionda a braccia protese sulla sua datrice di lavoro appena in tempo per evitare che cada a peso morto sul tavolino di cristallo posto davanti al divano panoramico New Orleans in pelle nera – che da solo vale un terzo del mutuo che il suo Lucio ha acceso per l’acquisto dell’appartamento all’angolo tra via Montecalvario e via Speranzella, valuta la domestica con una rapida occhiata da perito della Finanza – e l’adagia con tutte le premure del caso sulla chaise-longue, per poi correre in cucina a riempire un bicchiere d’acqua, nel quale scioglie un paio di zollette di zucchero.
– Signora! – sbotta la domestica quando vide la sua padrona riprendere un minimo di colore naturale, – Mi ha fatto prendere una paura. Ma cos’è stato? Si sente meglio?
– Sì sì, tranquilla Giorgina, – la rassicura la sig.ra De Rosa, – è stato solo un mancamento lieve e passeggero. Deve essere questo caldo… – Si porta la mano alla fronte, chiude gli occhi e contrae le labbra. – Che mi stavi dicendo prima? – dice poi, ostentando un tono calmo ma allo stesso tempo deciso.
– Eh, signo’, e chi si ricorda… vuie m’avite fatto scantà, – risponde la ragazza, ancora visibilmente agitata.
– Non parlare in dialetto, Giorgina. Te l’ho detto mille volte, – la rimprovera fiaccamente la donna, – Comunque, mi pare che stessi alludendo a certe telecamere che ha installato il tuo moroso… Non ricordo bene…
– Aaah… le telecamere… sì… e niente, signo’, l’altro giorno Lucio mio venne qua nel palazzo, abbascio ‘e garage… cioè, scusate, volevo dire giù ai garage… per sistemare le telecamere… nun m’arricordo comme l’ha chiamato… ‘o circulino chiuso, mi pare.
– Circuito chiuso, – sospira la De Rosa guardando il soffitto a mo’ di implorazione, – l’ha chiamato circuito chiuso, – e si schiaffeggia la fronte rassegnata.
– Sì sì, proprio così l’ha chiamato, – squilla raggiante Giorgina, – circuito chiuso. Accussì ‘o guardapurtune può tenè tutto sotto controllo, specie ‘a notte… con tutti ‘sti fetienti a piede libero…
– E basta con questo napoletano! – scatta la padrona di casa balzando in piedi, adesso rossa in viso. Raccoglie il portafogli e ne estrae tre banconote da dieci che mette in mano alla ragazza. – Tieni, vai a casa ora, che ho un mucchio di cose da fare. Ci vediamo dopodomani.
Giorgina guarda stupefatta la sua mentore uscire dal salotto e imboccare il corridoio, diretta nell’ala notte dell’appartamento. Ci impiega qualche istante a riprendersi dallo stupore per la reazione incomprensibile della donna, che è stata con lei sempre a dir poco gentile e garbata, nei modi come nei toni, quindi recupera la borsa dall’attaccapanni nell’ingresso ed esce, chiudendosi alle spalle la massiccia porta blindata senza fare rumore.
Rimasta sola, la sig.ra De Rosa recupera uno spinello confezionato dal cassetto della coiffeuse stile XVIII secolo griffata Maisons du monde, in perfetto pendant col resto dell’arredamento della camera da letto, e si chiude in bagno. Stupida stupida stupida, ripete alla sua immagine riflessa allo specchio, sei soltanto una povera stupida. Deve riflettere. Rilassarsi e riflettere. Una doccia. Ci vuole una doccia. Anzi no, un bagno caldo. Fanculo ai 35° all’ombra, un bagno caldo è quello che le serve per riprendere il controllo dei nervi e della situazione. Sudare, espellere tossine, riflettere, riflettere, riflettere. La sua mente, ancora ottenebrata dalla notizia che le ha sconvolto la giornata, comincia ad elaborare la soluzione al suo problema, selezionando inconsciamente le varie alternative. Alla fine non ne sarebbe rimasta che una.
Accende la canna di ottimo marocchino, aspira, trattiene per un po’ il fiato e finalmente libera dalla bocca e dalle narici il fumo denso e azzurrognolo. Gira entrambe le manopole della vasca da bagno, miscela i flussi di acqua calda e fredda fin quando non è soddisfatta della temperatura, allora tappa il buco e aggiunge sali rilassanti di un azzurro intenso e crema di bagnoschiuma alla vaniglia, che subito comincia a montare come albume sotto lo scroscio dell’acqua. Ritorna allo specchio, si guarda, atteggia le labbra unendole e sporgendole all’infuori, come se volesse schioccare un bacio, e si passa i polpastrelli dei medi sulle sopracciglia, stirandole, e poi sotto agli occhi, tirando la pelle sottile e delicata fino a quando la vista non ne risulta appannata. Sgancia la chiusura del reggiseno e due seni perfetti, rotondi, grossi a sufficienza da suscitare nel più pacato tra gli uomini i pensieri più animaleschi, trionfano superbi. Le corone rosa chiaro brillano per un velo di sudore e i capezzoli gonfi e appuntiti aggrediscono lo spazio con regale alterigia. Raccoglie la chioma permanentata di fresco in un nodo sopra la nuca e l’assicura al morso di un mollettone di legno intarsiato per tenerlo su. Sfila gli anelli dalle dita e li dispone in fila sulla piccola mensola fissata sopra al lavandino, poi apre un’anta alla destra dello specchio, stacca un batuffolo di ovatta, ci spruzza sopra un po’ di detergente e prende a struccarsi dagli occhi il velo di rimmel. Il leggero fruscio sulla pelle di quell’operazione è assorbito dai tonfi cupi dell’acqua. La schiuma si gonfia ai lati del piccolo vortice e da lì si spande per tutta la vasca, come una nuvola. La sig.ra De Rosa butta il batuffolo macchiato di colore nella piccola pattumiera in alluminio e si sfila il perizoma. Si gratta il triangolo ricciuto che le ricopre il monte di Venere, folto in alto e via via più sfumato verso il basso, fino a lasciare glabre le vellutate labbra della fica, quindi chiude l’acqua. Recupera il posacenere e lo pone su un lato della vasca, tra gli shampoo e i bagnoschiuma. Apre la finestra, non tutta ma il necessario per far fuoriuscire il vapore che già appanna le superfici lisce della stanza da bagno, e sul davanzale accende l’estremità scura di un nag champa, dalla quale immediatamente si sprigiona un filo di fumo intensissimo. Si caccia in bocca lo spinello, tira forte ripetutamente per risvegliare la brace assopita e immerge un piede fino alla caviglia, agitandolo nell’acqua per saggiarne la temperatura. Poi mette anche l’altro e rimane dritta in piedi per qualche secondo. Il pelo dell’acqua le arriva sotto alle ginocchia e la schiuma le solletica la pelle. Si accovaccia, assapora il piacere che le danno le piccole onde che lambiscono il sesso, lasciandole impigliati tra i peli dell’inguine minuscoli grumi di schiuma. Infine si siede, distende le gambe, poggia la testa sul bordo, trasalendo per la scossa di freddezza che la ceramica smaltata le propaga dalla nuca lungo la spina dorsale, e si lascia scivolare sul fondo della vasca. Il fumo dell’hascisc s’impasta a quello dell’incenso rendendo l’aria spessa e satura di un afrore fortemente orientale, e insieme formano un composto aeriforme scuro che mitiga il compatto biancore del vapore che lievita lento dall’acqua bollente.
Finalmente rasserenata, la sig.ra De Rosa gusta il suo spinello fin quando la brace non arriva al cartoncino che fa da filtro. Con gli occhi chiusi aspetta che la confusa nebulosa che le avvolge la mente si diradi lasciandole i circuiti percettivi carichi di ebbrezza e si espanda, con l’ondulata mollezza di un’onda, per tutto il corpo, avvolgendo sinuosamente i punti nevralgici, chimerici epicentri della tensione che sente gradualmente dissolversi. Adesso sa cosa deve fare, e questa consapevolezza le restituisce quella sicurezza che tutt’un tratto le è venuta meno alle parole della servetta, al punto da farla vacillare sulle gambe. Avverte il torpore salirle dalle ginocchia sopra la superficie delle cosce, i capezzoli inturgidirsi e protendersi in punte dure e vibranti, mentre qualcosa si scioglie al centro dell’addome e un magma, che percepisce salir su dal profondo delle viscere, si convoglia verso il basso ventre, laddove le labbra del suo sesso ricevono un abbondante afflusso di sangue e si aprono come grossi petali cremisi. Come se ogni atto fosse una conseguenza dell’ordine naturale e armonico del cosmo, porta una mano fra le gambe, morde con forza il labbro inferiore per contrastare il violento piacere che le scarica lungo la spina dorsale il contatto delle lunghe dita con l’interno delle labbra e prende a carezzarsi il clitoride, con piccoli e lenti movimenti concentrici, mentre sullo sfondo delle palpebre chiuse emerge sempre più nitidamente, come un’immagine gradualmente messa a fuoco da un obiettivo puntato sulle sue fantasie più recondite, la figura bruna di Arturo Lojodice che se la chiava da dietro, sul cofano ancora caldo della Classe A200 color magenta, gradito omaggio del marito per il suo 28imo genetliaco, grugnendole all’orecchio oscenità che il solo riportarle alla memoria le sferza di brividi le carni. Rievocare la grassa volgarità di quei commenti e gli epiteti che le vengono sputati addosso con foga animale, infonde un’ulteriore energia alle dita, che ora esplorano l’interno del punto nevralgico del suo piacere. Percepisce l’indistinto ribollire delle viscere salire in superficie vertiginosamente, preannuncio inequivocabile di un orgasmo incipiente, tumultuoso, che esplode in ogni cellula del suo corpo, sfibrando i tessuti dei muscoli che si tendono allo spasmo, la schiena s’inarca sul fondo della vasca, la bocca semiaperta imbarca piccole onde d’acqua, mentre il gorgoglio di urla voluttuose accompagna l’ultimo sforzo delle dita, che, stremate, strappano dalle labbra indolenzite e contratte l’ultimo frammento di quell’esplosione rovente, portandosi via la scia vischiosa dell’amplesso, proprio nello stesso istante in cui l’immaginazione le dà distinta la sensazione degli schizzi potenti e copiosi del suo stallone che le inondano il grembo.

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