Mamma di periferia II

Mamma di periferia II

Sono passati alcuni giorni da quella mattina, io sempre tra il solito tran – tran lavorativo, mio figlio impegnato con la scuola, gli amici e la palestra, uno squallido sotterraneo dove pratica un po’ di pugilato.
Le giornate sono lunghe da passare, e arrivo a sera stanca, senza più voglia di parlare e ritrovando mio figlio anche lui muto, senza nulla da dire.
La sera, se lui non esce per chissà qualche squallido ritrovo, la passiamo davanti al televisore finché non viene ora di coricarsi. Cioè per me abbastanza presto.
Mi accorgo di non sapere nulla di lui, e non so quanto io possa influire sulla sua vita per farlo uscire da questa immensa e grigia jungla di cemento.
L’altra mattina è stata una mattina veramente buia. Era brutto tempo, mi sono alzata presto e in cucina ho acceso la luce elettrica. Contemplavo la finestra ancora buia. Dall’altra parte, visibile per poche luci, si stendeva il nostro quartiere immenso e sventurato. Pensai di preparare una buona colazione per tutti e due, ma prima chiudendo la porta della sua stanza, per non svegliarlo anzitempo. Passando, buttai la testa dentro la stanza. Dormiva. Come la mattina precedente entrai silenziosa per mettergli a posto le coperte dopo aver accostando la porta per non fare entrare la luce della cucina. Nella semi – oscurità mi avvicinai al letto percependo l’odore un poco aspro proveniente dal suo corpo addormentato.
Dormiva scompostamente, le gambe piegate in maniera asimmetrica, la testa torta da una parte.
Sembrava voler rifiutare questa vita piatta e insoddisfacente.
Obbedendo ad un antico automatismo di madre, gli feci una carezza fuggevole tra i capelli e cercai di sistemargli le coperte. Non potei fare a meno di scorgere un rigonfiamento che gli tendeva gli slip.
-Ancora – mi dissi, ma non poteva che essere altrimenti, ormai si avvicinava l’ora del risveglio. Sistemai un poco le coperte e feci per alzarmi quando una mano sbucò da sotto la trapunta e mi si allacciò al polso. Era una stretta morbida ma tenace. Rimasi interdetta. Il viso di mio figlio pareva addormentato, i lineamenti ancora rilassati, ma la mano…mi confermava il contrario. Forse s’era svegliato in quel momento sentendomi. Fatto sta che quella mano mi tirò delicatamente verso il letto finché non mi ci fece sedere. La mia vestaglia si spostò leggermente scoprendo il ginocchio e parte della coscia. La mano di mio figlio andò a porsi delicatamente sul lembo di pelle nuda. Era calda. Non potei far a meno di appoggiare la mia mano sulla sua, accarezzandola. Il suo viso rimaneva sempre chiuso, le palpebre abbassate. Senza rendermene conto feci scorrere la mia mano sotto la coperta. Incontrai la sua coscia quindi l’orlo degli slip di cotone. Con un unico movimento scivolai sulla parte in rilievo, ch’era dura e tesa. Il pene di mio figlio fremette.
Cominciai a carezzarlo avanti e indietro, rimanendo sopra la stoffa. Il respiro di lui si increspò. Sentii sulla mia coscia la pressione della sua mano aumentare. Non seppi far altro che moltiplicare gli sfioramenti su quella cosa inarcata sotto la sottile barriera di cotone degli slip. Non osai stringere, solo continuai a far scorrere la mano dalla punta fino ai testicoli che sfioravo brevemente prima di ritornare in alto. Non ci volle molto.
Il ventre di mio figlio si abbassò e si alzò rapidamente, il pene parve voler lacerare il tessuto. Infine torse il collo fino a nascondere il viso completamente, in uno spasimo. Tutto il suo corpo si tese, ristando un momento immobile in quello spasimo, per poi crollare di nuovo sul materasso. Una macchia di umidore si allargò nella flanella morbida degli slip. Prima di ritrarla, sfiorai con la mano quella sorta di rugiada bagnandomi le dita. Solo ora divenni conscia di quello che era successo. Era avvenuto tutto così in fretta. Mi accorsi che la mano di mio figlio si era spostata lungo la mia coscia quasi sotto la vestaglia. Ci posai di nuovo sopra la mia, la presi con delicatezza e sollevandola la posai sul letto. Mi alzai e tornai in cucina.
Quando mi trovai nuovamente alla luce, fui invasa dalle emozioni che chissà come fino a quel momento erano scorse sotterranee e inavvertite.
Provai vergogna, lo ammetto, ma contemporaneamente una grande dolcezza, e uno strano turbamento che non seppi qualificare. Intanto la finestra aveva cambiato colore. L’alba si faceva strada in quella strana mattina.
Mi sbrigai a preparare la colazione. Un poco di caffellatte, le fette di pane scaldate nel forno, tutto sul tavolo con il barattolo della marmellata posato accanto. Poi mi ritirai in camera mia.
Non ebbi il coraggio di incontrare mio figlio in cucina, al chiaro della luce elettrica. Come se quello che era successo nella sua stanza non potesse avere patria se non nella stanza stessa, in quella calda oscurità.
Lo sentii uscire e prepararsi, fare colazione e infine chiudere l’uscio di casa. Rispuntai fuori nella casa deserta, dove non c’era nessuno tranne me stessa. Anch’io dovevo prepararmi per andare al lavoro. Tornai in cucina. Tra i resti della colazione c’era un tovagliolino di carta recante una scritta in stampatello fatta a penna. Era la scrittura di mio figlio. “Non ti preoccupare mamma” c’era scritto.
Era come se mi avesse letto nel pensiero. Nonostante di ragioni per preoccuparsi ce ne fossero, quel biglietto mi riempì di gioia e di sollievo insieme. Non ne potei farne a meno. Un sole piano piano sorgeva dentro di me. Una volta vestita, anch’io uscii di casa per la mia giornata di lavoro. Scesi le scale del condominio, sempre sporche, sempre ingombre, poi uscii in strada. Come ogni giorno, il vasto e squallido quartiere si spalancò davanti a me. Per la prima volta non ne ebbi paura.

Fine secondo episodio

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