Il commercialista e la ragioniera

Il commercialista e la ragioniera

Marisa si era presentata, un giorno del mese di aprile, nello studio di un noto commercialista, in centro città: era andata per chiedere di essere assunta presso lo studio, come ragioniera: si era diplomata l’anno prima, con una media di voti alti ed aveva tanto bisogno di lavorare e di guadagnare uno stipendio, per aiutare la povera mamma, vedova già da tre anni, che si spaccava la schiena a lavare le scale dei palazzi limitrofi, per poche migliaia di lire. Si era presentata al dottore Annibale T., con un abito molto attillato, che metteva a nudo le sue forme tondeggianti, sia del seno che dei glutei prominenti, che facevano risaltare ancor di più il suo vitino da vespa. Aveva chiesto, al citofono, se poteva avere un colloquio di lavoro: aveva letto sul quotidiano locale, che cercavano una collaboratrice, diplomata e di bella presenza, proprio in quello studio. Era stata quindi invitata a salire al terzo piano, di quel palazzo tanto signorile. Il dottore Annibale era un giovane, bruno, alto e molto distinto, sulla trentina. Ingessato nel suo doppio petto grigio, l’aveva fatta accomodare, nel suo studio, su una poltrona di pelle marrone e le aveva spiegato che aveva bisogno di una ragioniera, che fosse disposta anche a piccoli sacrifici, come fare dello straordinario, andare in banca, in Comune, dal Notaio, all’Ufficio Entrate o all’Esattoria Comunale. Soprattutto doveva curare le pubbliche relazioni con i clienti ed ascoltare tutte le loro lamentele. Marisa ascoltava ed annuiva, mentre guardava, con una certa gelosia, la fede d’oro che Annibale sfoggiava all’anulare sinistro: era bellissimo, colto, simpatico, specie quando sorrideva e mostrava il suo sorriso da dio, ma era sposato…. peccato! Quando lui ormai aveva finito di spiegare quanto c’era da spiegare, Marisa lo tranquillizzava, dicendogli che avrebbe lavorato anche la notte, pur di avere quel posto di lavoro. Il commercialista si dimostrava molto comprensivo e, congedandola, le stringeva la mano con molta cordialità e l’invitava a tornare l’indomani mattina, munita di libretto di lavoro, perchè avrebbe cominciato subito il periodo di prova: il posto era suo, sempre che si ricordasse di risolvere tutti i problemi del suo datore di lavoro, se mai se ne fossero presentati. Marisa che, da quella stretta di amno, aveva avvertito un calore straordinario, che le aveva messo il fuoco addosso, dichiarava subito che se ne sarebbe ricordata fino alla morte. Erano passati ormai cinque mesi da quando era stata assunta: Le giornate volavano, tanto lei era presa dal lavoro e dall’ammirazione segreta del suo principale: la notte sognava di succhiarglielo con amore, mentre gli offriva tutto il calore del suo giovane corpo, ancora vergine, e lo baciava ardentemente sulla bocca, fino a tirargli, con la lingua, anche l’anima. Lo stipendio era quanto di meglio si potesse desiderare e la gratificava, ma il desiderio di lui non le dava pace. Il suo corpo di ragazza di diciannove anni, ormai maturo e ancora vergine, ribolliva con vampate di calore che le partivano dal ventre e le giungevano ai capezzoli turgidi ed esacerbati. Soffriva per la mancanza di sesso e si masturbava due volte al giorno, martoriandosi il clitoride per avere orgasmi, che la facevano sentire sempre più vuota e quel vuoto che aveva dentro, doveva essere riempito al più presto, altrimenti sarebbe impazzita. Succedeva così che, verso la metà di settembre, la moglie di Annibale, avvenente ragazza, laureata in medicina, dovesse recarsi presso la sorella maggiore, che doveva partorire il suo secondogenito. Lei non aveva dato ancora al marito il sospirato erede. Partita la moglie, Annibale giungeva in ufficio, con un leggero ritardo, trovando Marisa già alle prese con il computer. Lei indossava una camicetta trasparente e scollata, che metteva a nudo le sue mammelle plastiche, facendo intravedere due capezzoli appuntiti, che bucavano il reggiseno, come se volessero uscir fuori per essere succhiati. Lui si sedeva alla sua scrivania, senza mai staccare lo sguardo avido dalla sua segretaria, illuminata da un raggio di sole, che le attraversava i lunghi capelli neri e metteva in risalto la sua bocca fresca, con due labbra carnose e rosse, che sembravano due ciliege, che attendevano di essere divorate.  Era la prima volta che posava lo sguardo sul corpo di Marisa ed istintivamente la chiamava a sè. Lei si alzava e si avviava verso la stanza del suo capo, che se la divorava con gli occhi, ammirando il suo incedere elegante e flessuoso, il suo corpo sinuoso, che desiderava essere esplorato in ogni angolo più remoto, specie quello nascosto fra le cosce, lisce come la seta, o fra le natiche voluttuose. Giunta dinanzi a lui, si sedeva sulla solita poltrona, ammirando Annibale, che le chiedeva aiuto. Lei, stregata da quell’uomo, che era diventato un incubo per il suo immaginario femminile, si dichiarava pronta a tutto. Lui le spiegava che, essendo partita la moglie, non avrebbe resistito a lungo senza amore, o meglio, senza le gioie del sesso: in pratica, si sentiva impantanato nella sabbia mobile. Marisa arrossiva, mentre il cuore le scoppiava, segretamente, di gioia. Rimaneva muta per qualche secondo, poi raccoglieva tutto il coraggio che aveva dentro e si dichiarava pronta, anche subito a soddisfare le sue voglie. Lui non voleva sentire altro, l’abbracciava e la baciava sulla bocca fino a soffocarla. Rimanevano incollati l’una all’altro, tanto che lei avvertiva qualcosa di grande e di penetrante, che le premeva sul ventre: improvvisamente gli passava sopra la sua mano morbida e affusolata e sentiva il cazzo di lui grosso e duro, che voleva uscire dai panataloni, per dichiarare guerra alla sua fighetta gonfia, pronta ad accoglierlo dentro a tutti i costi. Lui le aveva già tirato fuori le mammelle, che smbravano due palle di gomma e le stava già succhiando i capezzoli, duri come due biglie di vetro rosso. Lei, però, lo respingeva delicatamente, perchè non era quello il momento, nè il luogo adatto: insomma lei non era completamente pronta. Avrebbero rimandato tutto all’indomani mattina, domenica. Lei sarebbe andata a trovarlo a casa alle nove in punto. Durante tutto il pomeriggio, Marisa pensava a quell’affare grosso e duro che le avrebbe squarciato l’imene… e se avesse voluto infilarglielo nel culo, forse le avrebbe lacerato il buchetto e le avrebbe arrecato dolore. Correva in bagno a masturbarsi ferocemente, infilandosi due dita nella vagina imperforata, come a volerla aprire anzitempo. La notte dormiva poco e male, spingendo le ore. Anche lui si era masturbato due volte, pensando al momento in cui l’avrebbe trafitta e fatta sua, o al momento che glielo avrebbe messo in bocca e magari nel buco posteriore, che gli avrebbe regalato una gioia infinita. Finalmente giungeva la domenica, e lei, puntuale, alle nove suonava il camapanello della porta di Annibale: lui andava ad aprire e si trovava davanti la figura di Marisa, in tutta la sua bellezza di donna consapevole di offrirsi ad un uomo virile ed esperto, che l’avrebbe presa per la prima volta, facendola sua per sempre. Entravano in casa e si dirigevano in camera da letto. Quì, senza perdere tempo in preamboli, si denudavano e si leccavano a vicenda, come fanno i cani. Lui, nell’abbassarle le mutandine, le aveva leccato i glutei e la figa, poi i seni, fino a quando lei abbassandosi glielo aveva preso in bocca, nonostante la grossa cappella, spingendolo dentro fino all’ugola. Lo sentiva veramente duro e grosso, ma giurava a se stessa che ce l’avrebbe fatto a contenerlo tutto dentro di sè. Appena sul letto, lei apriva le cosce d’alabastro, tornite e lisce e mostrava il suo boschetto nero, coperto di morbidi peli, inesplorato e gonfio di piacere. Lui, dopo avere infilato la lingua fra le labbra della fica e averla leccata più volte, si avventava col suo cazzo enorme, che sembrva una clava, su quella fessura stretta ed indifesa e, al primo colpo, lei lanciava un grido di dolore. Lui capiva che Marisa era ancora vergine e si fermava per un solo attimo, per poi riprendere con vigore inaudito, la galoppata. Lei soffriva molto, ma la gioia di poterlo
fare suo, le impediva di gridare, fino a quando lui le squarciava l’ultimo velo ed entrava in quella vagina calda e umida di piacere, che l’accoglieva fino alla cervice e fino a fargli vomitare tutto lo sperma denso, che si perdeva nel suo corpo, lacerato e vinto, ma soddisfatto: ora non si sentiva più vuota, ma tutta riempita, anche se sanguinante. Correvano a lavarsi in bagno, facendo attenzione a non sporcare le lenzuola pulite de letto. Poi tornavano di nuovo a distendersi e ad accarezzarsi, baciandosi ripetutamente sulla bocca. Lei lo riprendeva in bocca e lo cospargeva di saliva abbondante; poi quando lui accennava ad aprirle le gambe, lei dolorante, si girava, offrendogli il buchetto posteriore, pregandolo di fare piano, perchè era la prima volta che si lasciava sodomizzare. La gioia di lui era immensa: glielo aveva messo in bocca per primo, l’aveva deflorata pochi minuti prima, ora sarebbe stato il primo ad aprirle il culo. Si riteneva felice e fortunato! Le apriva delicatamente le bianche natiche e scorgeva in fondo quel buco roseo, chiuso come un bocciol di rosa, che di lì a poco si sarebbe aperto, per sbocciare all’amore, per ingoiare quella spada che l’avrebbe trafitto fino in fondo, penetrando nel corpo caldo di lei. E così avveniva: lui entrava, per primo, anche nelle viscere di quella seducente ragazza, procurandole un pò di sofferenza, ma anche tanto piacere: La cavalcava selvaggiamente, fino a domarla e fino a godere contemporaneamente a lei, che aveva trovato il modo di masturbarsi. Poi, dopo l’inculata, glielo sfilava lentamente, ed osservava, con gioia, il buchetto, appena violato, che rimaneva aperto e rosso come una voragine, prima di chiudersi piano, imprigionando tutto lo sperma, che l’aveva inondato dentro. Suggellavano così, ancora ansimanti di piacere, il loro godimento, con un lungo bacio sulla bocca, su quel bianco talamo, che li consacrava, per sempre come teneri amanti.        Giorgio De Fall

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